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Quando il profugo non è politicamente corretto

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Reem e la Merkel: quando il profugo non è politicamente corretto

Berlino, 29 lug – Il video ha invaso il web e ha commosso tutti i cuori teneri del pianeta. Reem Sahwil da una parte, palestinese, 14 anni, cresciuta in Germania, e la Merkel, la cancelliera di ferro, dall’altra. La profuga di Rostock, parzialmente invalida, che vuole rimanere in terra tedesca per avere un futuro, e Angela che, con sensibilità tipicamente teutonica, dice che no, la Germania non può accogliere tutti, facendo traboccare di lacrime la povera ragazza.

Di qui i dibattiti sull’accoglienza, sulle politiche verso i profughi (veri o presunti), e la simpatia che Reem ha suscitato in tutti tedeschi dal cuore d’oro, tanto da diventare una piccola celebrità. Che succede, però, se la profuga non corrisponde allo stereotipo del “buon migrante”? Se ne è dovuto accorgere Per Hinrichs, giornalista del quotidiano Die Welt, che pochi giorni fa ha intrattenuto con Reem una lunga intervista. Per molti versi Reem – nota Hinrichs – assomiglia in tutto e per tutto a una ragazza tedesca: stessi vestiti, stessi poster nella cameretta, stesso tappeto di Hello Kitty. Tutto quello che vuole è studiare al ginnasio, prendere la maturità e lavorare come interprete per gli altri profughi. Insomma, il ritratto perfetto della buona occidentale.

Eppure le cose si complicano quando si comincia a parlare di identità e di politica. Perché Reem è palestinese, e a tutt’oggi, secondo il diritto internazionale, non esiste uno Stato di nome Palestina. Esiste solo Israele. Per questo Hinrichs chiede che cosa rappresenti per lei la Palestina: “tutto” risponde la ragazza. Ma non finisce qui: “I miei genitori dicono che Israele ci ha cacciato dalla Palestina, giusto no? (…) La mia speranza è che prima o poi Israele non ci sia più, e che esista solo la Palestina. Quella terra non dovrebbe più essere chiamata Israele, ma Palestina”.

Apriti cielo: l’imbarazzato intervistatore fa notare alla ragazza che il Judenhass, l’odio per gli ebrei, non è permesso in Germania. Al che Reem risponde candidamente: “Sì, ma qui c’è la libertà d’opinione, qui mi è permesso dirlo. Sono pronta a discutere di tutto”. Così va in tilt il gergo della political correctness. L’equazione (falsa) antisionismo = antiebraismo va in fumo di fronte a una ragazzina, profuga, semi-invalida, simpatica, che non fa altro che appellarsi all’ultimo feticcio dell’ideologia progressista, ossia la libertà di parola. Ma c’è stato anche chi ha fatto di meglio: uno zelante giornalista di casa nostra ha addirittura tacciato le dichiarazioni di Reem di “antisemitismo”. Che Reem, in quanto palestinese, sia anch’ella semita, non deve aver fatto sorgere dubbi al prode giustiziere.

Nonostante tutto, è un altro l’elemento dell’intervista che colpisce di più. Hinrichs chiede alla ragazza se consideri la Germania già come la sua Heimat, la sua patria, al che Reem ribatte che no, “la mia patria è la Palestina”. Ora, Heimat in tedesco non è la patria strettamente nel senso di Vaterland, di terra dei padri, ma piuttosto il luogo in cui ci sente heim, “a casa”. Ebbene Reem, nonostante la gratitudine verso la Germania che l’ha accolta, sente come “casa” solo la Palestina, cioè un Paese che tra l’altro non ha mai visto, essendo nata in un campo profughi in Libano. Questo fatto è significativo: il richiamo delle radici non si cancella con un colpo di spugna progressista.

Probabilmente la vicenda di Reem Sahwil ci insegna esattamente questo: se c’è una cosa che possiamo imparare da alcuni profughi, è proprio che la memoria e la nostalgia delle origini non è affatto un fossile da museo, ma un sentimento ben radicato nello spirito dei popoli. Per lo meno di quei popoli che ancora sanno da dove vengono o che, molto più semplicemente, non hanno mai conosciuto la somma bontà della Boldrini.

Fonte: ilprimatonazionale.it
Immagine in apertura: © Reuters
 

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