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“Non sapeva che cosa aspettava…”

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I trent’anni di internet in Italia che si festeggiano in questi giorni non sono soltanto un avvenimento tecnologico, ma anche neurologico.

È una specie di supermente che abbiamo a disposizione sempre e dovunque con il nostro telefonino. Ma non si tratta solo delle infinite cose che possiamo trovare, conoscere, vedere, leggere, scoprire in un istante, da qualunque luogo.

Con la rete ognuno si trova dotato di un corpo più esteso, di occhi, orecchi, mani e piedi più potenti. Siamo costantemente connessi col mondo, in qualche modo possiamo essere contemporaneamente in molti luoghi diversi e farci sentire. Ai quattro angoli del pianeta. È un potere straordinario.
Tuttavia anche rischioso perché con la mente rischiamo di essere sempre altrove, sempre “fuori”, così possiamo perdere o dimenticare la strada di casa: il nostro “io”.
Infatti la grande chance è diventata subito anche un rischio patologico. L’esperto fa la diagnosi: connessi con il mondo, ma sconnessi da noi stessi.

DIPENDENZA O POTENZA?

Secondo alcune ricerche il 60 per cento degli italiani ammette di aver sviluppato una forma di dipendenza da internet (soprattutto attraverso il telefono cellulare).
C’è una dipendenza che, anche prima di diventare patologica, crea ansia e fa vivere male, cosicché sono spuntate subito strategie di cura e disintossicazione digitale.
Ma – senza andare sul patologico – c’è una dipendenza lieve che forse riguarda tutti, se è vero, come scriveva tempo fa il Daily Mail, che la più diffusa fobia del mondo è la “nomofobia”, cioè la paura di restare disconnessi dalla rete telefonica.
Nell’eterna disputa fra gli apocalittici e gli integrati gli scenari sono estremi e senza sfumature. I primi vedono ormai l’umanità schiava della tecnologia e dei padroni di essa, milioni di persone sottoposte a tecnostress, ore e ore di lavoro perse, legami familiari in fumo (vedi il film “Perfetti sconosciuti”) e peggio ancora.
Gli integrati invece esaltano le luminose possibilità offerte dalle nuove tecnologie, che effettivamente regalano enormi vantaggi.

In realtà hanno ragione entrambi. Ma non si può né rassegnarsi supinamente alla dipendenza digitale, né prospettare un rifiuto luddista delle nuove tecnologie, nella sua forma snob o in quella eremitica.
Casomai – se il problema è la dipendenza – bisognerebbe riflettere sul “perché” di tale fenomeno. Se infatti si è calcolato che un utente comune – come ciascuno di noi – controlla il cellulare almeno 150 volte al giorno, che è obiettivamente un uso compulsivo, ciò non dipende dal cellulare, ma da noi.
In parte è provocato da un istinto automatico, ma forse in gran parte pure da un’inquietudine, da una mancanza indecifrata. Da una insoddisfazione costante.
Può servire ogni tanto “staccare la spina” e disintossicarsi dai micidiali aggeggi elettronici per ritrovare noi stessi, ma non si risolve così il problema, perché non sappiamo chi siamo noi e perché abbiamo bisogno di “connessione”. Cioè non sappiamo cosa inconsciamente attendiamo.
Non sappiamo – per dirla col poeta – di cosa è mancanza quella mancanza. Non sappiamo inoltrarci in quell’abisso che è la nostra psiche, la nostra mente o – se vogliamo – la nostra anima.
Provare a farlo con lo psicoanalista (che ha sostituito preti e confessori) non sembra così efficace: come “meccanico” della psiche egli può (forse) riparare alcuni guasti della “macchina”, ma non può dirti da dove vieni, né chi sei, né dove vai, né perché, né con chi. Soprattutto non può dirti chi cerchi e cosa ti manca.

IL MESSAGGIO DELL’IMPERATORE

Tutti questi vuoti e smarrimenti riecheggiano sia nel nostro desiderio inconsulto di essere sempre “altrove” (per l’insoddisfazione della realtà e del presente), sia nell’ansia che ci stiamo perdendo qualcosa.
Ma soprattutto si riflettono nella solitudine che viviamo, anche quando siamo circondati da tante gente, e che ci rende annoiati e ci fa immaginare di essere “cercati” a nostra insaputa da qualcuno o raggiunti da chissà quale notizia che cambierebbe la nostra vita o – ci basterebbe – la nostra giornata o almeno il nostro umore del momento.
Basta affacciarsi sulla letteratura, che è la grande foresta delle anime, per trovare in altra epoca “senza connessione”, quella stessa nostra ansia che ci fa controllare continuamente il telefonino.
Siamo come il personaggio del racconto di Kafka che sta alla finestra ad aspettare il favoloso “messaggio dell’imperatore” destinato a lui, messaggio che è sempre in procinto di arrivare, sempre più vicino, ma inevitabilmente in ritardo per qualche oscura ragione.

ATTESA

Madame Bovary non aveva il cellulare – e chissà quanto ossessivamente l’avrebbe usato – ma aveva già quel vuoto, viveva già quell’attesa che permetteva a Flaubert di rappresentarla così:

“In fondo all’anima, tuttavia, essa attendeva un avvenimento. Come i marinai che si sentono perduti, essa volgeva di qua e di là degli sguardi disperati, cercando in lontananza qualche vela bianca tra le nebbie dell’orizzonte. Non sapeva che cosa aspettasse, quale caso; né da qual vento questo sarebbe portato, né a qual riva condurrebbe lei; se fosse scialuppa o bastimento grande, se carico d’angosce o pieno di felicità fino alle murate. Ma ogni mattina, appena sveglia, incominciava a sperare che sarebbe venuto appunto quel giorno; e ascoltava tutti i rumori, si alzava di soprassalto, si stupiva che non capitasse nulla; poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava di esser già al domani”.

Sembra quasi di vederla controllare continuamente i messaggi e svegliarsi al mattino afferrando – come prima cosa – il cellulare…
Ma se quella solitudine, quell’attesa, quel “taedium vitae”, quella nostalgia di non-si-sa-cosa, c’erano già, da secoli, anzi da millenni, dalla notte dei tempi, alla radice delle anime umane, come incolpare il telefonino?
Forse dovremmo conoscere meglio noi stessi. Riconoscerci feriti e mancanti. Bisognosi di un incontro che cambia la vita.

APRIRE GLI OCCHI

E dovremmo magari tener presente che il “messaggio dell’imperatore”, “l’avvenimento”, “la vela bianca fra le nebbie dell’orizzonte”, arriva più facilmente nella concreta realtà quotidiana che nel mondo virtuale della rete.
Forse sta già bussando alla porta delle nostre giornate e non ce ne accorgiamo.
Forse se – dal telefonino – alzassimo lo sguardo sui volti, sui tramonti, sulle cattedrali delle nostre città, sulle nostre campagne, sui nostri padri e i nostri figli, sugli incontri, sui nostri santi, i nostri eroi silenziosi e i nostri artisti, ci renderemmo conto che il messaggio è già arrivato e ce lo siamo persi. Ce lo stiamo perdendo.
È in tutto quello che – con un termine generico – chiamiamo “bello”. Come scriveva Jorge Luis Borges:

“La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è, forse, il fatto estetico”.

Ecco cosa aspettiamo: una rivelazione.


Fonte: antoniosocci.com

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