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Mastrogiacomo: quanto ci costa (in soldi e disonore) di Maurizio Blondet

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Ascolto la radio in auto, e non c’è dubbio: il governo Prodi sta trasformando l’avvenuta liberazione di Daniele Mastrogiacomo in un trionfo pubblicitario per il governo stesso. I TG intervistano in ginocchio Dini (Commissione Esteri) e Ranieri e gli altri sottosegretari; Gino Strada è l’eroe; il direttore di Repubblica sventola la bandiera italiana.
La prima considerazione è sull’abilità dei nostri oppressori-governanti.
La liberazione della Sgrena (Manifesto) fu trasformata, dall’insispienza del Cavaliere, in un tragico insuccesso del governo Berlusconi, con l’omicidio di un nostro bravo agente, Calipari, e senza nessuna scusa ottenuta dagli americani.
Era già avvenuto per la liberazione delle «due Simone»: un sacco imprecisato di soldi pagato, e ricevuti in cambio sputacchi e insulti.
E il bello è che Berlusconi crede di essere l’insuperabile mago della cosiddetta «comunicazione».
Ma stavolta è peggio.
Non solo sono stati di sicuro pagati, se non riscatti, mazzette enormi, col denaro di noi contribuenti scuoiati da Visco.
Per riavere il caro Mastrogiacomo, il nostro governo ha convinto il governo di Kabul, quello di Karzai, a liberare cinque prigionieri talebani in suo custodia.
Fra essi, il fratello di Dadullah, ossia del capo talebano più temibile che opera nell’area dov’è stato sequestrato Mastrogiacomo.
Tale fratello, il cui arresto è avvenuto in Pakistan mesi fa, è ritenuto un importante generale dai talebani stessi.
E tutto ciò nel corso dell’iniziativa bellica americana che vorrebbe disarticolare sul nascere l’offensiva di primavera dei talebani.
Con quali argomenti il nostro governo sia riuscito a «convincere» Karzai non è il caso di chiedersi: a Kabul si compra tutto, tutti sono in vendita.
Basta accordarsi sulla cifra.
Questo l'ha fatto anche Berlusconi.
Ma qui, la faccenda è un’altra.
Per liberare un privato, andato là a suo rischio e volontariamente, abbiamo ottenuto uno «scambio di prigionieri» che avrà conseguenze, fors’anche gravi, sulle operazioni belliche in corso.
Il fratello di Dadullah, l’ottimo generale, potrà infliggere perdite a quelli che, governo e opposizione italiota uniti, continuano a chiamare «i nostro alleati».

Più precisamente, a quegli scarsi soldati inglesi che da mesi affrontano da soli la guerra da cui noi non ci siamo ufficialmente chiamati fuori, ma a cui furbescamente non partecipiamo; e agli americani che da poco sono stati rafforzati per dar man forte agli inglesi.
Insomma, per restituire un giornalista privato ai suoi cari, abbiamo cambiato il quadro tattico, e forse anche strategico, a sfavore dei nostri «alleati» nella NATO.
Ora, non so se si coglie la ridicola enormità di tutto questo.
Siamo là con truppe su mandato ONU e nel quadro della NATO.
No, non facciamo la guerra (oh no, no e poi no), ma insomma siamo a Kabul per mantenere in sicurezza il governicchio Karzai, che è nemico bellico dei talebani.
Se si arriverà a combattere a Kabul, è contro i talebani che i nostri soldati combatteranno.
E al primo civile che per sua scempiaggine cade in mano al nemico, indossiamo la grisaglia borghese e manovriamo come si trattasse di liberare un sequestrato da banditi sardi, anzi peggio: perché le famiglie che hanno un loro famigliare rapito in Sardegna subiscono il blocco dei beni, a loro viene vietato di trattare sottobanco.
Non so come si può definire tutto questo.
Viene in mente un nome: «altro tradimento».
Oppure un altro: 8 settembre.
C’è un’aria di un altro 8 settembre, quando il comandante in capo lascia dietro di sé un disco registrato dove dice «La guerra continua», senza avvisare che ora eravamo alleati non più degli alleati di due ore prima, ma dei nostri nemici di due ore fa.
Con decine di migliaia di nostri soldati in balia del nemico ex-alleato.
L’8 settembre è un archetipo italiota.
E’ un evento ricorrente, una replica del nostro disonore nazionale che si rimette in scena ad ogni difficoltà e problema pubblico, immediatamente seguìto dal tradimento, da parte dei nostri poteri costituiti, delle responsabilità da quei poteri assunti, solennemente, e al livello più alto.
Ma almeno, l’8 settembre del ‘43 è più o meno sentito come una sconfitta e una vergogna della comunità intera, e la monarchia responsabile ha dovuto andare in esilio.
Il giudizio comune degli storici non partigiani (nel senso proprio) è che quell’8 settembre decretò la morte della nazione.

Oggi, invece, l’8 settembre 2007 diventa una vittoria del governo Prodi, lo rende più stabile e più amato.
Un trionfo.
Un’esultanza, una festa nazionale.
Ma non credo che gli americani e gli inglesi la vedranno così.
In un modo o nell’altro, ce la faranno pagare.
Non so come, forse con qualche altro omicidio accidentale tipo Calipari, forse ancor peggio.
Gli americani sono vendicativi: «the ugly american», l’americano cattivo, è un archetipo anche più forte della nostra attitudine al tradimento a spese dei soldati.
Una cosa è certa: che non avranno torto.
Non è certo simpatico apprendere che abbiamo fatto liberare un generale nemico per riavere sano e salvo un giornalista.
Il peloso buon cuore italiano griderà: o cinico, dunque dovevamo lasciar morire il caro Mastrogiacomo?
La risposta richiede una precisazione.
Quando Avvenire mi ha mandato in Afghanistan o a penetrare in Sarajevo assediata, era ben chiaro a tutti noi che per un giornalista di «Avvenire» non ci sarebbe stata l’immensa commossa solidarietà vista per la Sgrena e le «due Simone» e Mastrogiacomo.
Per noi di Avvenire, gli ambasciatori d’Italia (pagati anche da noi) non erano mai disponibili.
Un ambasciatore a Kabul mi nascose persino che stava formando un convoglio di automezzi per andare nelle zone del sud dove erano arrivati i nostri soldati; riuscii coi miei mezzi a salire su un elicottero USA, arrivai a destinazione e trovai l’ambasciatore che aveva portato con sé, ovviamente, i giornalisti-servi della RAI e di Repubblica.
Giornali «più importanti».
Noi di Avvenire l’abbiamo sempre saputo.
Per questo il nostro giornale ci copriva con una costosissima assicurazione che, almeno, avrebbe pagato qualcosa ai nostri familiari in caso di nostra morte.
Un milione al giorno e forse più.
Ora, mi dicono che Mastrogiacomo non è un inviato dipendente da Repubblica, ma un freelance, un «battitore libero».
Non so se sia vero.

E’ sicuramente vero per la Sgrena, che era là senza l’incarico e il grado di «inviato speciale», e sicuramente non era coperta dall’assicurazione dal Manifesto, giornale che paga i suoi serventi come «militanti» e volontari, e sicuramente non ha i mezzi per un giornalismo professionale in zona di guerra.
Solo dopo il clamore e il caso nazionale la Sgrena è diventata a tutti gli effetti «inviato», e probabilmente anche Mastrogiacomo si guadagnerà sul campo il titolo e lo stipendio.
C’è persino il sospetto che un «freelance» vada in posti come l’Afghanistan a sue spese, offra i suoi servizi a un importante giornale che comincia a pubblicarli, e poi si faccia rapire per ottenere il titolo.
E' possibile.
La povera Cutuli non era «inviato speciale» de Il Corriere.
Mi risulta che aveva rifiutato i pressanti inviti del giornale a rientrare perché, dopo tre mesi in area di guerra, il titolo di «inviato» diventa automatico e obbligatorio.
Rimandava, per stare un giorno in più: quel giorno che le è stato fatale.
Ed ora, dopo aver riferito questi piccoli segreti di bottega, torniamo alla domanda: lo Stato italiano doveva assolutamente salvare Mastrogiacomo?
A mettersi nei guai c’è andato lui, su ordine del suo direttore.
A liberarlo doveva pensarci La Repubblica, che il miliardario Eugenio Scalfari ha venduto per 200 e passa miliardi al miliardario De Benedetti; giornale grossissimo che fa grassi profitti.
Ha tutti i mezzi per negoziare sottobanco, pagare riscatti e mazzette, senza sconvolgere la politica del governo che è – bisogna ancora ricordarlo con sforzo – di tutti noi.
Noi contribuenti abbiamo pagato al posto di Repubblica.
Perché?
La politica estera italiana – cioè tutti noi come popolo – ha pagato un prezzo ancora più grave.
E’ giusto?
Dobbiamo ricordare che lo Stato italiano non protegge i cittadini italiani che, senza essersi messi nei guai da sé, si trovano nel mirino della mafia.
Non li protegge, non assegna loro scorte, non paga i danni prodotti dai delinquenti, perché «non ha mezzi».
Il nostro Stato «non ha i mezzi» per sollevare dalla miseria qualche milione di pensionati che vengono cacciati di casa perché non riescono a pagare l’affitto.
«Non ha i mezzi» per occuparsi dei giovani senza lavoro, non ha i mezzi per assegni familiari meno ridicoli di quelli che dà.
Vorrei solo sapere se il concetto di «uguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge» è qualcosa che teniamo presente nei comportamenti pubblici, oppure no.
Io credo di no.

Credo che la condizione giuridica italiana contempli l’ineguaglianza di fronte alla legge: per giornalisti di giornali amici il governo si mobilita fino al disonore, per gli altri concittadini bisognosi, nemmeno un centesimo.
Ma Repubblica è in grado di pagare almeno le spese materiali, in denaro, con cui noi contribuenti. abbiamo liberato Mastrogiascomo?
Uno Stato serio le chiederebbe il conto.
Ma questo non lo farà: Repubblica è «amica» del governo, ha contribuito a dipingere anche questo
8 Settembre in una trionfo per Prodi.
Con ciò – a volte è necessario spiegare l’evidente – non vuol dire che io sia a favore della guerra contro i talebani.
Sono contro, come la massima parte dell’elettorato di sinistra.
Ma quando si partecipa a una guerra che in coscienza si sente ingiusta, ci se ne ritira apertamente – come ha fatto la Francia in Iraq, non si tradiscono gli alleati con doppi giochi sottobanco.
Spero sia chiaro.

(Tratto da www.effedieffe.com)

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