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L’intelligence degli dei: estratto #4

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Estratto #4

Tratto dal ventesimo capitolo: "L'Hangar"

Il Comandante leggeva nella mia mente e carpiva ogni mio pensiero:
«Bravo!» mi disse «Cominci a capire come comportarti, e a breve capirai altre cose!».
Gli dissi:
«Mi sfugge però dove si andrà a parare con l’intrigo dell’uranio scomparso… tutto questo contesto preparatorio era proprio necessario?».
«Il tuo speciale retaggio ci avrebbe aiutato nei nostri intenti. Per questo è stato deciso di farti venire qui da noi».
«Ma, il senso di tutto questo, il senso della mia vita, della Vita?».
Il Comandante rispose:
«Ecco appunto, il senso della Vita in generale, o meglio il senso della Vita particolare, ossia quello deciso per ogni uomo che viene al mondo. Ci sono delle finalità, ci sono dei disegni prestabiliti. Sembrano parole vuote, parole al vento, ma le cose stanno proprio così. Stiamo intervenendo per il tuo bene, e per il nostro, di modo che tutto sia in “armonia” con un desiderio cosmico primario. Non c’è molto altro da dire se non consigliarti di seguire sempre e solo il tuo istinto. Non sei un uomo destinato a fare parte di una semplice massa di persone già di per sé poco incisiva, quindi dobbiamo aiutarti in modo che tu possa aiutare la “causa nostra”, così come la chiamiamo noi! Dire altre cose in merito potrebbe confonderti o allarmarti troppo».

«Comandante io capisco il suo riserbo, ma non potrebbe provarci lo stesso?».

«Sarebbe meglio di no, sono qui per cercare di chiarirti le cose basilari e non per renderti le cose ancora più difficili. Non siamo qui a fare i misteriosi con te, anche se quello che ti abbiamo riferito rappresenta solo la punta dell’ iceberg. Siamo consapevoli che quello che ti capiterà in questo periodo lo potrai comprendere appieno solo tra qualche decennio… Ma adesso basta parlare e filosofeggiare, il tempo stringe e abbiamo altre cose da fare. Intanto, per sdrammatizzare un po’, tu sei un pilota militare, non è vero?».

«Comandante, da quello che ho capito lei sa più cose su di me di quanto io stesso potrei mai sapere, quindi questi interrogativi sono del tutto inutili… senza offesa ovviamente!».

«Ovviamente!» mi disse il Comandante, divertito.
Uscimmo dalla stanza e attraversammo un lungo corridoio da sogno, non saprei definirlo meglio, era tutto lastricato di marmo bianco, illuminato da luci che non capivo da dove provenissero, e sui lati era circondato da colonne in stile greco-romano, nuovissime. Percorremmo un centinaio di metri in quello scenario futuristico, finché arrivammo davanti ad una porta. Due esseri ai lati le facevano la guardia, erano simili al Comandante: alti, biondissimi e con grandi occhi di ghiaccio. Il loro vestiario era una via di mezzo tra quello dei Pretoriani dell’antica Roma e quello degli eroi dei moderni film di fantascienza, vestivano infatti una specie di calzamaglie di materiale a me sconosciuto e portavano a tracolla un’arma di forma stranissima, come di pera allungata. Le due guardie, appena arrivammo in prossimità della porta, tesero il braccio a mo’ di saluto romano, la porta si aprì: eravamo dentro una sorta di hangar contenente dei mezzi spaziali, più precisamente dischi volanti… Non ci potevo credere, ero allibito, sembravano quelli visti e filmati da George Adamski negli anni Cinquanta, ma avevano forma più aerodinamica, meno a “fanale capovolto”. Mi avvicinai al disco più vicino e notai qualcosa che ancora adesso, dopo molti anni, nel ricordarlo mi evoca una sensazione impressionante: i dischi presentavano delle insegne raffiguranti un grande disco nero accoppiato a delle scritte cuneiformi, forse numeri in caratteri sumeri. Non c’era personale, a parte altre coppie di guardie sparse qua e là, la manutenzione era evidentemente operata da macchinari computerizzati, o almeno cosi dedussi. Dico questo perché non mi sarei sorpreso se quelle macchine utensili fossero state dotate di intelligenza artificiale, ma non lo chiesi perché ero troppo affascinato da ciò che stavo vedendo. Il comandante si fermò a discutere con due guardie, e poi mi disse:

«Puoi avvicinarti, puoi anche toccarli se vuoi, io arrivo subito» e fece per allontanarsi. «Ah no! Quasi dimenticavo, avvicinati solo a quello» disse indicandomi il disco che avevamo più vicino e che sembrava libero dall’attenzione delle “macchine utensili manutentrici”, così le avevo denominate in quei convulsi momenti di eccitazione.

Il disco volante poggiava su di un piccolo cilindro di sostegno posto ad un’altezza di due metri circa, cosi potei andargli sotto, alzare le mani e toccarlo. Aveva un diametro di circa cinque metri: la prima cosa che mi venne in mente fu di misurarlo, seppur con dei semplici passi. Il disco numerava 2-26, almeno così mi parve, data la scarsa conoscenza di numeri cuneiformi che avevo allora (oggi mi sento molto più ferrato in materia). Ciò significava che quello era il caccia a disco nr. 26 della seconda squadriglia, almeno se le cose funzionavano come le nostre aeronautiche militari di superficie, oggi non escludo che potesse significare altro, ma al momento dedussi questo. La sensazione più incredibile la ebbi quando alzando la mano riuscii a toccarlo, sembrava fatto di un misto di seta e velluto, ma se facevo pressione lo percepivo come più duro della corazza di carro armato. Non aveva bullonature, niente giunti o saldature, nulla, sembrava un pezzo unico, proprio come riportato negli avvistamenti dei primi dischi. Non riuscivo a capacitarmi di come si potesse forgiare qualcosa del genere.
Era di colore scuro e di una certa fattura, almeno così mi pareva, dato che stazionava in una zona d’ombra. Il simbolo, il disco nerastro che prima ho descritto, al tatto non pareva di vernice ma sembrava smaltato, liscissimo, e vedendolo da vicino mi accorsi che era bordato da una finissima striscia dorata, magari era oro vero, come quello ad utilizzo iconografico religioso (non mi sarei certo sorpreso della cosa). Non riuscivo a vedere bene la parte superiore, cosi mi allontanai di qualche metro e, cercando di fare dei salti per riuscire a veder meglio, mi accorsi che…

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