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Le rive infiammate del Mediterraneo: Ragioni e Opportunità – di A. Lattanzio

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La storia la scrivono i vincitori, quindi è sempre diversa dalla realtà? Ne parliamo con Teodoro Brescia Dottore di ricerca, docente e scrittore e autore del libro...

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Da dicembre 2010, la situazione socio-economica nel Maghreb (Tunisia e Algeria) e nel Mashreq (Egitto, Giordania), ha iniziato ad entrare in ebollizione. Come ha ben spiegato nei suoi libri, lo storico libanese George Corm,  l’esplodere delle contraddizioni sociali ed economiche, nel mondo arabo, era inevitabile.

La struttura finanziaria-fiscale altamente inefficiente, che non permette la ridistribuzione interna delle risorse tra gli strati sociali, è una delle cause principali del malessere sociale che sta eruttando in questi mesi sulle rive meridionali del Mediterraneo. Infatti, il sistema fiscale della maggior parte dei paesi arabi, colpiva i consumi di massa e non prevedeva una reale tassazione delle rendite e dei redditi alti. E quei servizi che vengono forniti dalle autorità pubbliche, vengono per lo più sfruttati dai ceti più abbienti, escludendone le masse. Un’altra causa importante di queste esplosioni, è senza dubbio data dalla grave crisi economica che sta colpendo l’Unione Europea, centro di gravità finanziario-commerciale dell’area mediterranea.

Lo sbocco che consentiva l’allentamento sociale interno, ovvero il flusso dell’emigrazione, s’è ridotto grandemente a causa della succitata crisi europea. Adesso questi vari fattori esterni e interni s’intrecciano, facendo tremare, e mandando in frantumi, dei sistemi politici abbastanza sclerotizzati, imbalsamati, incartapecoriti, come il faraone Mubaraq. Sistemi, però, che si sono retti grazie alla condiscendenza strategica degli USA e della NATO, da una parte, che li hanno riforniti di ogni tipo di sostegno politico-diplomatico e di assistenza militare, spionistica e sicuritaria. Dall’altro, c’è la più che trentennale assistenza economico-finanziaria dell’Arabia Saudita e degli altri petro-emirati, che hanno alimentato i regimi anti-nasseriani e antibaathisti di Sadat e Mubaraq in Egitto, di Saleh in Yemen, della famiglia Hussein in Giordania, delle varie oligarchie sunnite e maronite in Libano. Tutte allineate dall’asse palese Riyad-Washington-Londra-Parigi (e dall’asse occulto Tel Aviv-Washington-Riyad) in una serie di azioni di contenimento strategico. Prima contro i movimenti nazional-progessisti, Nasser e il nasserismo, il Baathismo, la corrente popolare-patriottica irachena del Generale Qassim, i partiti comunisti di Siria e Iraq, il radicalismo sud-yemenita, libanese e palestinese; e nella lotta contro l’influenza regionale dell’URSS, affiancando la condotta geopolitica agli USA. Con l’ascesa di Sadat e la caduta di Reza Pahlavi, un nuovo nemico sostituisce il nazionalismo progressista nasseriano e iracheno,  lo Sciismo rivoluzionario e l’islamismo popolare che aggrega. L’Iran rivoluzionario, Amal e Hezbollah in Libano, Gheddafi in Libia, diventano i nuovi nemici da abbattere, all’interno del mondo arabo sunnita. L’Arabia Saudita, in coordinamento con Israele, Pakistan, Egitto di Sadat e USA, sviluppa il proselitismo wahhabita e con esso dirotta migliaia di militanti islamisti dallo scontro con Israele, dal fronte palestinese, verso il nuovo fronte afghano, provocato e alimentato dalle manovre neomackinderiane di Brzezinsky, maggiore fautore dell’alleanza tra Islam tradizionalista saudita-wahhabita e interessi imperialistici statunitensi.

Con il collasso sovietico, si ridefiniscono le linee strategiche regionali. L’Iran viene mantenuto nell’isolamento da parte dell’occidente, e del mondo arabo a guida saudita, e l’Iraq baathista, prima potenza militare, industriale e tecnologica araba e regionale, diventa il nuovo obiettivo della strategia regionale dell’alleanza Washington-TelAviv-Riyad. Fino a ridisegnare nuovamente, all’indomani dell’occupazione di Baghdad, nel 2003, Siria e Iran quali obiettivi della strategia sionista-statunitense dei neocon.

Queste manovre zigzaganti a livello internazionale, hanno avuto effetti deleteri all’interno delle società arabe. In Egitto, sotto Sadat, la fratellanza mussulmana venne recuperata, alimentata e finanziata dal capitale saudita, per combattere ed estirpare l’eredità di Nasser. Lo stesso gioco venne tentato, di volta in volta, in Siria, Sudan, Yemen del Nord, Algeria e Iraq. Con modalità diverse in Libano, dal 2003 a oggi. In contemporanea ogni riferimento al socialismo, marxista, baathista o nasseriano che fosse, all’interno delle società egiziana, giordana, libanese, yemenita, nordafricana, venne combattuto, contrastato, ricorrendo contemporaneamente al proselitismo wahhabita, alle madrasse afgano-pakistane, all’ideologia neoliberista thatcheriano-reaganiana, alla pura e semplice repressione interna. Allo stato di polizia, ai brogli elettorali istituzionalizzati, alle politiche sicuritarie permanenti, si aggiunse l’utilizzo degli ‘afgansy’, la legione islamista impiegata dalla CIA e dall’ISI in Afghanistan contro i sovietici e i demo-popolari afgani, per reprimere le sommosse e le rivolte interne. Emblematico il caso Algerino, nel 1990-95. Ma anche la Siria, nel 1982, e poi la Libia, ne furono vittime ieri, come lo sono l’Iraq e lo Yemen oggi.

Tutto ciò ha contribuito ad acuire le tensioni interne, che le locali democrature hanno stemperato ricorrendo alla valvola di sfogo dell’emigrazione verso l’Europa occidentale. Ma i regimi locali non hanno fatto che screditarsi e logorarsi negli anni, nei decenni. Immobilismo sociale coniugato a una economia liberista, hanno eroso sempre più il già basso tenore di vita delle popolazioni locali; la paralisi politica interna si proiettava nel rivoltante servilismo politico-diplomatico verso USA, UE e Israele. Altrimenti il sostegno militare occidentale e quello finanziario saudita sarebbero stati bloccati. E soprattutto l’atteggiamento delle cancellerie del cosiddetto fronte moderato del mondo arabo, riguardo ai 25 anni di tormenti cui è sottoposta la popolazione palestinese, nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza, da parte del sionismo, ha liquidato gli ultimi argini di rispetto e credito verso i governi collaborazionisti da parte dei loro popoli. Era questione di tempo, e prima o poi, questa miscela doveva esplodere.

La miccia è rappresentata dalla sconfitta politico-strategica dell’arroganza neocon di Washington; dalle secche sconfitte militari d’Israele in Libano e a Gaza; dalla formazione e costruzione di una nuova alleanza strategica regionale, di natura economica, commerciale, industriale, tecnologico-scientifica e militare, che vede protagonisti dei leader realmente popolari, realmente democratici, reali espressioni degli interessi dei rispettivi popoli e nazioni: Mahmoud Ahmadinejad in Iran e Recep Tayyp Erdogan in Turchia. L’asse Ankara-Tehran sta coalizzando intorno a sé le forze arabe più vive e responsabili. Il patriottismo libanese, la Siria, le forze irachene che vogliono dare una svolta alla situazione della loro nazione. Tale coalizione, andando conformandosi, potrà creare un centro di attrazione geostrategico e geoeconomico regionale tale che difficilmente le altre realtà del Medioriente potrebbero sfuggirgli. Sotto gli impulsi di questa nuova realtà in via di costituzione, il regime sionista si ritrova sempre più isolato, poiché i suoi ‘innaturali’ alleati arabi, ovvero le varie democrature filo-occidentali, rischiano, e si vede, l’implosione interna.

E’ una corsa contro il tempo. Gli USA, Francia, Germania, Regno Unito l’hanno capito più o  meno bene. Gli USA, tramite i loro noti organismi per la ‘Democracy Export’, hanno avviato già da qualche anno quei processi tesi a garantire, in modo a loro favorevole, un rinnovo delle leadership politiche locali, spianando l’accesso a una nuova generazione di collaborazionisti dell’imperialismo statunitense e del colonialismo sionista. Fondazioni, think tank, organismi ‘umanitari’, insomma tutto il vecchio armamentario dietro cui si celano Langley e il Pentagono, lavora a pieno ritmo. Con tanto di appelli, da parte del maggiordomato del governo statunitense, a lasciare libero accesso ai network sociali, i grimaldelli che hanno permesso di strumentalizzare fette popolari nel perseguimento degli obiettivi geopolitici, geoeconomici e geostrategici delle centrali decisionali occidentali.
La vittoria delle forze autenticamente popolari, nazionali, patriottiche, islamiche e socialiste, rafforzerà e consoliderà il processo epocale avviato dall’Iran e dalla Turchia. Una coalizione che ha il potenziale di stabilizzare e fare prosperare una regione, il Medio Oriente, che ha tutte le carte e le risorse per poter progredire in modo notevole e ampio. Un obiettivo da ostacolare a ogni costo da parte dell’asse atlantista, poiché una autentica stabilizzazione regionale, con la risoluzione di tanti conflitti sociali ed etnici, comporterebbe l’emarginazione, e forse l’espulsione, della razzista e parassitaria ‘Sparta sionista’; il blocco di qualsiasi velleità occidentale nel poter utilizzare la regione mediorientale quale trampolino di lancio per aggressioni contro l’Eurasia; e in definitiva, il consolidamento emisferico dell’egemonia delle potenze eurasiatiche. Con l’Unione Europea costretta a riconsiderare radicalmente le sue opzioni strategiche verso il Continental-Blok Eurasiatico e verso l’imperialismo neoliberista anglo-statunitense.

 

Alessandro Lattanzio, 28/1/2011

Aurora03.da.ru

FONTE:

http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/?p=1157

 

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