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LA CINA DEPORTA ALTRI TIBETANI di Maurizio Blondet

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Ufficialmente, i cinesi giustificano lo spostamento della popolazione con l’intento di avvicinare i pastori e i piccoli contadini alle strade principali, perché abbiano accesso a luce, acqua, scuole, lavoro e assistenza sanitaria.
Ma l’organizzazione umanitaria Human Right Watch, che ha interrogato tibetani recentemente fuggiti in Nepal, racconta tutta un’altra storia.
I tibetani di campagna non solo sono trasferiti senza il loro consenso, ma sono costretti a pagare le miserabili casette «socialiste» che la Cina assegna loro.
I poveretti sono obbligati a contrarre mutui di 4.000 euro per ogni casa: una cifra impagabile per una popolazione il cui reddito pro-capite si aggira sui 200 euro l’anno.
Inoltre, i trasferiti lamentano che la nuova sistemazione non prevede posto per gli yak, i pelosi bovini da cui essi traggono il loro reddito, e li ha allontanati dai campicelli dove – a 4 mila metri di quota – coltivano l’orzo, che una volta tostato e mescolato al burro di yak, costituisce l’alimento nazionale tibetano.
È una vera deportazione con spese a carico dei deportati.
«E sta creando una specie di boom edilizio», dice Melwyn Goldstein, un docente di cultura tibetana alla Cleveland University.
Secondo Goldstein, il vero scopo del trasferimento forzato (che ricorda simili esperimenti condotti da Stalin) è quello di sradicare la cultura tibetana, e la fede buddhista incentrata sul Dalai Lama.
«Nelle città lo sradicamento ha avuto pieno successo, grazie al trasferimento di massa di abitanti di etnia Han (il gruppo dominante nella Cina interna). L’identità tibetana resiste però nei villaggi rurali; ora la battaglia si sposta lì nelle campagne».

Tim Johnson, il giornalista del McClatchy Newspapers che ha rivelato questo nuovo crimine contro l’umanità, ha viaggiato per un migliaio di chilometri nel Tibet fingendosi un turista, e di rado ha potuto parlare con la popolazione locale, sfidando il divieto assoluto del regime.
Un giornalista colto a fare interviste in Tibet viene immediatamente espulso; «d’altra parte, i locali hanno evidentemente paura di parlare a stranieri. Non fanno che ripetere la propaganda pechinese: ‘Stiamo meglio nelle nuove case’», e così via.
Ma Johnson ha descritto le file ininterrotte di «nuovi villaggi socialisti» cresciuti a intervalli regolari a lato delle strade, con microscopiche casette tutte uguali, con la bandiera rossa sui tetti.
E ha raccolto qualche confidenza dei pochi coraggiosi.
Tutti si lamentavano di non essere stati consultati prima del trasferimento.
Inoltre, hanno spiegato che i funzionari cinesi addetti al progetto si intascano i soldi delle costruzioni.
E che i contadini e pastori che non possono pagare i ratei del mutuo, per loro proibitivo, perdono la casa; vengono scacciati, e i loro terreni vengono confiscati per essere poi sfruttati in attività minerarie (il Tibet è ricco di minerali).
Come noto, per «cinesizzare» il Tibet, Pechino non solo ha spostato milioni di Han (cinesi etnici) in quella regione, la più montuosa e difficile del pianeta; vi ha costruito strade costosissime a scopo militare, vi mantiene una rilevante forza armata, ed ha distrutto o svuotato almeno seimila monasteri buddhisti; va ricordato che quando il Tibet era libero, un quarto della popolazione conduceva vita da monaco, almeno temporaneamente.
I giovani diventavano monaci nel periodo dei loro studi, che avvenivano nei monasteri.
Nonostante gli sforzi repressivi e la persecuzione, la fede buddhista resiste nelle aree più aspre e isolate; è evidente la volontà di Pechino di cancellarne gli ultimi resti.
Ciò, probabilmente, in previsione dei milioni di turisti che arriveranno in occasione delle Olimpiadi, che si terranno l’estate prossima.
Inoltre il Dalai Lama, Nobel per la pace, che vive in esilio in India, ha ormai 71 anni.
Il regime cinese conta, alla sua morte, di dargli come successore un lama nominato da Pechino.

Che dire?
L’Unione Europea e Washington, che ogni giorno fanno a Putin qualche lezioncina sulla presunta mancanza di democrazia in Russia, tacciono su questa ultima persecuzione messa in atto dalla nomenklatura di Pechino, questi «talebani del socialismo» impegnati a cancellare una religione ed una cultura di alta spiritualità e prestigio.
Ma ovviamente la Cina è un modello di «liberismo di mercato», e la Russia no: gli affari prima di tutto.

(Tratto da www.effedfieffe.com)

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