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Il ‘nuovo secolo americano’ è finito prima ancora di iniziare?

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Che fine ha fatto il Progetto per il nuovo secolo americano (PNAC), che prevedeva un mondo dominato dagli USA, nella consapevolezza che “la leadership americana [cioè statunitense, ndr] sarebbe la migliore possibile sia per l’America sia per il mondo intero”? Osservando gli accadimenti degli ultimi tempi, ormai incredibilmente accelerati dallo scandalo PRISM o Datagate, viene da chiedersi se sia un progetto ancora attuabile.
Una delle tappe fondamentali, e assolutamente taciute, del progetto di dominio mondiale pensato a Washington era l’
Unione Transatlantica, ossia l’unificazione politica, economica e giuridica tra Unione Europea, Stati Uniti e Canada. Un progetto che finora è stato presentato (ma solo di sfuggita) dai mezzi di informazione di massa solo come un accordo di libero scambio per creare un’unica area commerciale tra le due sponde dell’Atlantico. Esemplificativo in questo senso Panorama.itUsa-Ue, l’accordo commerciale e i vantaggi per l’Italia. Aumento dell’interscambio nel breve periodo, crescita e benessere nel lungo. Titolo a parte, l’autrice, Claudia Astarita, si premura a citare lo scetticismo di Alessandro Polito, analista politico e strategico:

Oggi più che mai è fondamentale per il buon esito di qualsiasi negoziato soffermarsi a valutarne con attenzione gli effetti di breve e lungo periodo. Puntando su un unico aspetto conveniente si rischia di rimanere travolti dalle altre conseguenze derivanti dall’accordo, sottovalutate nella fase della contrattazione. Una possibilità che diventa ancora più pericolosa se inquadrata in un contesto di crisi economica (…).

Insomma, entusiasmo ma non troppo. Basti pensare che è la stessa Fondazione Bertelsmann, che si batte per il TTIP, ad aver mostrato che la convenienza per l’adozione dell’accordo è a senso unico, con un incremento del reddito medio pro-capite del 13,4% per gli USA e di un misero 5% per i paesi europei. Stime eccessive, se si considera che la Commissione Europea valuta un aumento del PIL comunitario di un misero 0,5% in seguito al varo del TTIP (previsto per il 2015). Verrebbe spontaneo chiedersi per chi lavorino allora i dirigenti di Bruxelles, che dal 2007 si adoperano per l’unificazione transatlantica. In un precedente articolo citavo le dichiarazioni rese a Radiounoda Susy De Martini, eurodeputata e membro della Commissione per le relazioni con gli Usa, che lamentava come la vicenda Snowden avesse il potenziale di incrinare proprio i cosiddetti accordi di libero scambio.

Ma nei pochi giorni trascorsi dalle sue parole, un’altra pedina importante sembra essere saltata: si tratta di Jean Claude Juncker, il primo ministro lussemburghese, che ha deciso di rassegnare le dimissioni dopo la richiesta dei suoi alleati socialisti di indire elezioni anticipate. Neanche a dirlo, Jucker è accusato di non aver vigilato sulle intercettazioni illegali attuate dal Srel, l’intelligence del Lussemburgo, a danno dei propri cittadini. Quella di Juncker è una figura di spicco nel processo di costruzione europea: il primo ministro lussemburghese è stato il primo presidente dell’Eurogruppo, che riunisce i ministri di economia e finanza dei paesi dell’Eurozona, dal 2005 al 2012 ed in questa veste ha sempre difeso la centralizzazione dei processi decisionali comunitari (per rafforzare l’euro, a suo dire). Juncker gode però anche del privilegio di essere membro del Comitato dei Trecento, un organismo molto influente e poco conosciuto fondato nel XVII sec dall’East India Company e presieduto dalla regina d’Inghilterra.“Trecento uomini, che si conoscono l’un l’altro, dirigono il destino economico dell’Europa e scelgono i loro successori tra di loro” diceva nel 1909 Walter Rathenau, fondatore della tedescaAEG, riferendosi ai membri del Comitato. Significativo, nell’organismo, il ruolo di leadership delle famiglie nobili europee (come segnala John Coleman, ex agente dei Servizi britannici e tra i pochi che hanno approfondito l’argomento): oltre a quella inglese, anche le famiglie reali olandese, danese, belga, spagnola. Tra i nomi italiani, spiccano Fabrizio Cicchitto, il ministro Emma Bonino, il governatore della Bce Mario Draghi, Vittorio Emanuele di Savoia (in qualità di principe di Napoli), John Elkann, il defunto Giulio Andreotti ed il cardinale Giovanni Lojolo. Ma anche Silvio Berlusconi, ormai braccato dalla magistratura, ed Ettore Gotti Todeschi, presidente dello IOR costretto alle dimissioni un anno fa. Come il suo superiore, Joseph Alois Ratzinger, anch’egli dimissionario (e oggi dov’è finito?) e membro del Comitato dei Trecento. Un ruolo non secondario, dunque, quello di Juncker, nell’edificazione di un governo mondiale, di cui l’unificazione transatlantica sarebbe stata il prototipo. Basterebbe considerare questo suo ruolo di prestigio, forse, per dubitare che potesse realmente ignorare l’attività dei suoi Servizi, nonostante questi ne abbia rimpallato la responsabilità alla versione lussemburghese del COPASIR.

A proposito di COPASIR, in Italia il presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi, Giorgio Stucchi, ha dichiarato a L’Espresso di non essere minimamente preoccupato per il Datagate: “in Italia non esiste nessun PRISM”, affermava il 2 luglio al settimanale. Eppure la stampa straniera non sembra d’accordo: secondo Der Spiegel, sarebbero dai 2 ai 7 milioni i dati italiani tracciati dalla NSA. Mentre il Guardian rende noto che i servizi segreti italiani non solo fornirebbero dati di ogni tipo all’Agenzia USA per la sicurezza, ma che addirittura le comunicazioni di intelligence (COMINT), il traffico grezzo ed il materiale tecnico acquisito e prodotto verrebbero forniti a Washington “di continuo e senza richiesta”. Come se i Servizi italiani fossero solo un distaccamento dell’intelligence USA, insomma. A permettere questo il decreto per la tutela della sicurezza informatica nazionale, varato dal governo Monti il 23 gennaio (mentre infiammava la campagna elettorale). Lo scopo del provvedimento era ufficialmente di dotare l’Italia “della prima definizione di un’architettura di sicurezza cibernetica nazionale e di protezione delle infrastrutture critiche”, attraverso:

un sistema organico, all’interno del quale, sotto la guida del presidente del Consiglio, le varie istanze competenti possono esercitare in sinergia le loro competenze”. 

La dicitura sotto la guida del presidente del Consiglio difficilmente può permettere a Monti di ritenersi escluso dalla responsabilità, come ha fatto Juncker. In particolare è significativa la somiglianza del decreto Monti con l’ordine esecutivo sulla sicurezza ciberneticavoluto da Barack Obama, il cui scopo è proprio di “difendere le infrastrutture critiche nazionali”, tra cui quelle cibernetiche. In nome della lotta al terrorismo, il governo USA avoca a sé il diritto al monopolio della rete, arrivando ad includere nella definizione di terrorismo anche la violazione del copyright. In Italia, il decreto voluto dal governo tecnico predisponeva tre livelli operativi:

uno politico per l’elaborazione degli indirizzi strategici, affidati al Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica; uno di supporto operativo e amministrativo e a carattere permanente, il Nucleo per la sicurezza cibernetica presieduto dal Consigliere militare (del premier); uno di gestione di crisi, affidato al tavolo interministeriale di crisi cibernetica”.

A vararlo, un governo che non godeva di legittimazione elettorale e che sopravviveva nonostante le dimissioni del suo premier, in barba alla prassi che prevederebbe un voto di sfiducia e il varo di un esecutivo a termine in vista delle elezioni. Un’ipotesi che nel dicembre 2012, quando il Pdl decise di abbandonare la maggioranza, non fu presa in considerazione da Napolitano, che non sembra aver obiettato alle decisioni prese dall’allora premier dimissionario, sebbene i suoi compiti fossero solo di natura amministrativa. 

A prendersela invece con il provvedimento del governo Monti-Napolitano è oggi uno che di privacy dovrebbe saperne qualcosa, ossia l’ex garante Stefano Rodotà. Intervistato da L’Espresso, Rodotà denuncia il carattere illegale del decreto, che permetterebbe accordi tra i servizi segreti e le aziende telefoniche per la fornitura dei dati. Il provvedimento infatti:

sembra non sia stato sottoposto al parere obbligatorio ma non vincolante del Garante e quindi potrebbe essere impugnato. Il parere è un modo per rendere almeno visibile la questione all’opinione pubblica e al Parlamento. Colpisce che per nessuna delle forze politiche che hanno sostenuto il governo Monti sia stata sfiorata dalla gravità e dall’enormità del decreto”.

Tra queste bisognerebbe però includere anche quelle di minoranza, giacché la Lega Nord, di cui il presidente del COPASIR è esponente, non sembra avere avuto né avere nulla da obiettare. Né ha mosso obiezioni, nel 2011, alla ratifica dell’accordo SWIFT da parte del suo ministro (e oggi leader) Roberto Maroni: un’intesa transatlantica che prevede la possibilità per Washington di accedere ai dati di tutti i correntisti europei, in nome della lotta al terrorismo (senza però riservare all’UE la medesima possibilità, proprio come si fa con le colonie).

Alla richiesta su come contrastare la deriva della privacy, Rodotà propone come primo passo una strategia politica:

l’Europa Unita sta permettendo al governo Usa e alle sue multinazionali di violare i principi che ancora proteggono i cittadini europei. È il frutto di una sudditanza nei confronti degli Usa: culturale, oltre che politica ed economica. Eppure, siamo la regione del mondo che è giunta ad affermare le maggiori garanzie per i dati personali, nella Carta fondamentale dei diritti per esempio”.

Un’Europa opposta a quella del Transatlantic Trade and Investment Partnership, quindi, e in cui i governi si adoperino per la sicurezza dei loro cittadini utilizzando “solo misure compatibili con i caratteri democratici di un sistema”. Come a dire che la democrazia, nel senso di “governo del popolo” (ma è davvero questo il suo reale significato?), è ancora un punto di arrivo e non di partenza.

Nel frattempo, il Vecchio continente dovrebbe risolvere un problema tecnico, cioè non usare più gli hubs, cioè i centri di smistamento dati, situati negli Stati Uniti. Questi raccolgono infatti dati e metadati che provengono dal 99% del traffico informatico e telefonico mondiale, attraverso i cavi in fibra ottica sottomarini.

Nell'immagine sopra: Mappa parziale della rete di cavi che connette il Nord America con il resto del mondo. Fonte: Washington Post

In Europa, si tratta di una media di 68.3 terabits al secondo, che finiscono quasi direttamente alla NSA. A rivelarlo è il Washington Post, che avrebbe ricevuto da Edward Snowden delle slidesillustrative dell’Agenzia per la sicurezza statunitense. Questo programma di sorveglianza pressoché globale verrebbe attuato attraverso specifici accordi tra la NSA e le aziende che forniscono l’accesso alla rete, legali negli USA (secondo l’amministrazione Obama) in virtù del Patriot Act e del Foreign Intelligence Surveillance Act (e in Italia in virtù del già citato decreto Monti). Gli accordi prevederebbero la presenza di “cellule aziendali interne” con il nulla osta di Washington, con il compito specifico di monitorare i cavi in fibra ottica, e di gruppi legali specializzati per garantire il rispetto dell’intesa e l’effettivo invio dei dati. Uno di questi era il Team Telecom, che in base al Contratto per la sicurezza di rete firmato nel 2003 con l’asiaticaGlobal Crossing Limited (poi assorbita dalla 3Level), aveva il compito di consegnare i dati negli USA entro trenta minuti dall’avvenuta richiesta (!). In Italia, secondo il Guardian, tale richiesta non necessiterebbe nemmeno di essere fatta: in base a quanto previsto dal governo Monti, l’invio è immediato.

​Come emanciparsi allora da questo sistema di controllo? Attendere che il lupo cattivo diventi vegetariano? No, i paesi BRICS (acronimo che indica Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) hanno deciso di realizzare una propria linea diretta di telecomunicazioni, con una rete di 34 mila chilometri di cavi sottomarini. Un progetto che indica la volontà politica di emancipazione dall’Occidente e dagli USA e di implementare la condivisione di tecnologie, scambi commerciali, transazioni finanziarie. Conoscere in anticipo le mosse del proprio nemico è un privilegio di cui Washington quindi non disporrà più. Il progetto, denominato BRICS cable, sarà operativo entro il 2014. Ancora pochi mesi, quindi, e il nuovo secolo americanopotrà dirsi concluso senza mai essere davvero iniziato. E l’Europa che farà?

Articolo di Jacopo Castellini

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