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Contro Galileo

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Un omaggio a Furio Stella…


Raccomandato da Papa e Cardinali. Truccava i risultati degli esperimenti. Copiava senza citare le fonti. E molto altro ancora: ecco cosa si nasconde dietro l'immagine di Galileo Galilei, padre della Scienza moderna e martire dell'oscurantismo religioso.


“Per haver tenuto e creduto che il sole sia il centro del mondo et immobile, e che la terra non sia centro e si muova, abiuro, maledico e detesto li suddetti errori ed eresie”

(Galileo Galilei, documento di abiura 1633)

“Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta. È molto semplice”.

(“Cristoph”- Peter Weir, “The Truman Show” 1998)

Certo è che scegliendo Galileo Galilei (1564-1642) la scienza moderna si è scelta proprio un bel campione. L’inventore del metodo sperimentale, il paladino della libertà scientifica, il martire dell’oscurantismo religioso, la vittima dell’inquisizione, il padre della fisica moderna e chissà cos’altro ancora. Un mito. Peccato che dietro la facciata, scrostando qua e là  l’intonaco della storiografia recente e passata, l’immagine perfetta e quasi sacrale del Galileo così come ci viene tramandata rischia di infrangersi in mille pezzi.

Possibile? Possibile. Tanto per cominciare, l’ideatore del metodo (quello attraverso cui la fisica assume carattere scientifico), era nei suoi esperimenti quanto di meno galileiano si potesse immaginare. Nel senso che imbrogliava. Sul serio: truccava i risultati. Qualche volta gli esperimenti non li faceva proprio, e aveva anche la sfacciataggine di dirlo: come quando mette in bocca al Salviati del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” – la controfigura di Galileo stesso – che “io senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico”. Molti li falliva come nel caso dell’esperimento che doveva misurare la velocità della luce. Di più: la maggior parte dei suoi esperimenti non avrebbe potuto farli “scientificamente” neanche volendolo. In un  Seicento arretrato dal punto di vista tecnologico e sprovvisto di strumenti di precisione sarebbe stato impossibile. Pensate: le prime volte Galileo misurava il tempo con il battito del polso, o canticchiando una canzone. Poi con clessidre a grano, ad acqua e altri marchingegni. Molto poco rigoroso come metodo, bisognerà ammetterlo, come pure tutte le sue osservazioni astronomiche al cannocchiale (inventato dagli olandesi, e di cui fu il geniale perfezionatore), legate alla vista e quindi alla soggettività dei sensi, senza nessuna possibilità di test di conferma. E difatti non tutti e non sempre, dal suo “perspicillum”, vedono quello che vede lui. “Nemo perfecte vidit”, com’ebbe a riferire quell’allievo di Keplero secondo cui, guardando una porzione ingrandita di cielo con il cannocchiale di Galileo, “alcune stelle fisse si vedono doppie”.
Non di rado prendeva cantonate mostruose, come quella di spacciare le maree, anziché come l’effetto dell’attrazione lunare, come la prova inconfutabile che è la Terra a girare attorno al Sole e non viceversa. Tesi questa esposta con largo anticipo da Nicolò Copernico, il cui postumo “De rivolutionibus” fu pubblicato ben 21 anni prima che Galileo nascesse. O anche sulla natura intrinseca delle comete, di cui s’impuntò a dire che erano “illusioni”, negandone addirittura l’esistenza come oggetti reali e ricoprendo di terribili improperi (aveva anche un caratterino niente male!) il povero padre gesuita Antonio Grassi che invece sull’argomento dimostrava di averci visto giusto.

Quanto ai rapporti con il potere, a cominciare dal Papa, dal cardinale Roberto Bellarmino poi diventato santo, e dagli altri gesuiti che nel 1633 gli fecero firmare il documento di abiura, anche qui l’immagine del genio perseguitato dalla Chiesa perde colpi che è un piacere. Galilei, dai preti, non era perseguitato: era raccomandato. Raccomandatissimo. La cattedra di matematica all’Università di Pisa, e poi a quella di Padova, spuntarono per esempio sotto l’ala protettrice del cardinale Francesco Maria del Monte, cui l’aveva raccomandato a sua volta il fratello marchese Guidubaldo (1545-1607),  “uomo eccellentissimo nelle lettere e singolar matematico” suo primo e storico sponsor, con il quale Galileo aveva avuto modo di scambiare esperienze di meccanica applicata all’arte militare. Per non parlare dei favori elargiti a piene mani da cardinali, arcivescovi e addirittura dal Papa in persona. Persino il truce Bellarmino, che aveva mandato al rogo Giordano Bruno senza tanti complimenti, nei suoi riguardi indossò sempre i guanti di velluto. Tant’è che alla fin fine, se Galileo venne processato e condannato, lo fu soltanto per le invidie dei suoi stessi colleghi scienziati.

Era anche quel che si dice un bello scopiazzatore. Nel senso che faceva proprie idee degli altri. Non solo quella eliocentrica di Copernico, ma alcune ancora più indietro nel tempo. Ci sono vaste prove storiche che dimostrano l’esistenza di alcuni “predecessori” medievali di Galileo. Per non parlare delle basi della teoria della relatività che sarebbe stata codificata da Albert Einstein tre secoli più tardi: Galileo la dedusse dagli antichi, dall’Eneide di Virgilio, soprattutto da Giordano Bruno, a cui s’ispirò nella forma e nella sostanza del “Dialogo”. Senza nemmeno citarlo, ovviamente: come avrebbe potuto, un fervente cattolico come lui, solo ammettere di avere ficcato il naso in un libro di un eretico (oltretutto bruciato sul rogo) come il grande filosofo nolano?
No che non poteva. E anche quanto al “fervente” ci andremmo piano. Come cattolico (o come tutti i cattolici?) Galileo predicava bene ma razzolava male. Era prepotente, arrogante e prevaricatore. Fece tre figli senza sposarsi. Come padre era semplicemente un disastro. Non ci pensò nemmeno due volte a sbattere in convento le due figlie, di cui una l’odiò al punto di non volerlo più vedere per tutta la sua vita.

Faceva oroscopi

E che dire poi del fatto che lo scopritore del metodo scientifico facesse oroscopi? Eppure anche qui non si scappa. Lo ammettono a denti stretti anche gli anti-oroscopisti per eccellenza. Persino Margherita Hack, sempre più show-woman e forse prossima senatrice a vita [il presente avicolo è stato scritto nel 2005, ndr], scrive che  “Galileo fece alcuni oroscopi” (e subito si affretta ad aggiungere: ”con risultati del tutto errrati”). Solo alcuni? Per esempio quello del tizio che doveva morire dopo vent’anni, o di quell’altro cavaliere tedesco a cui un altro astrologo aveva clamorosamente cannato il suo piano natale? A scorrere lettere e cenni biografici, si ha la sensazione che siano molti di più. Galileo, quando insegnava a Padova, ne faceva per esempio “con regolarità” in trasferta a Venezia, per arrotondare il suo stipendio di professore di matematica. Così come ne compilava per il granduca di Toscana Cosimo de Medici dopo la pubblicazione del “Sidereus Nuncius” in cui Galileo (in maniera assolutamente disinteressata, s’intende) battezza come “pianeti medicei” i quattro satelliti di Giove da lui scoperti al cannocchiale. Un autentico colpo di genio che gli frutta la protezione alla corte fiorentina dal 1610 al 1616.

Certo, tornando all’astrologia – che assegnava valori qualitativi e non solo quantitativo-meccanicistici, di mera catalogazione dell’esistente – va premesso che all’epoca era materia d’insegnamento universitario non meno della medicina o della matematica. Di più: non vi erano praticamente differenze fra astrologia e astronomia, tant’è che tutti gli astronomi calcolavano quali pianeti e stelle emergessero sull’orizzonte al momento di una nascita e ne ricavavano l’influenza astrale sul neonato. Anche Keplero, tanto per non far nomi, compilava oroscopi. E però non è che la cosa fosse, per così dire, gradita a Papa e cardinali. Non a caso, l’accusa di compilare oroscopi a pagamento è contenuta nella prima delle sue denunce al tribunale del Sant’Uffizio: quella sporta il 21 aprile 1604 da Silvestro Pagnoni, ispirato molto probabilmente secondo il gossip dell’epoca dalla stessa mamma di Galileo, dove si legge anche che Galileo non andava a messa, leggeva libri discutibili e “giaceva con un’amante”. Passi per i soldi (e ancor di più per l’amante), ma come faceva la Chiesa a essere conciliante con chi – l’astrologo – era dedito per sua stessa natura a convincere le persone che il loro destino dipendesse non da Dio ma da pianeti e stelle? Un’eresia bella e buona, appunto. Dalla quale Galilei, furbescamente, si sottrae dicendo (o meglio facendo dire a uno dei suoi personaggi letterari) che negli oroscopi non ci crede né ci ha mai creduto. Frase che tornò maledettamente utile nel momento in cui, a Roma, il suo nome venne sussurrato come ispiratore di un oroscopo che dava per imminente la morte del Papa: una vicenda che finì secondo logica, con Urbano VIII vivo e vegeto, e con un processo a un gruppo di astrologi che venne effettuato guardacaso in concomitanza con il soggiorno romano di Galileo del maggio 1630.

Non solo: la formale distanza presa dall’astrologia, è stata letta da alcuni biografi anche come una difesa dagli assalti degli astrologi all’indomani della sua scoperta delle lune medicee di cui sopra, che lo marcavano stretto per sapere se e quanto la presenza di questi nuovi corpi celesti avrebbe potuto modificare il quadro delle interferenze astrali. Di tali insistenze Galileo si lamenta in una lettera indirizzata all’amico Dini: “… per liberarmi di una tediosa instanza”. Ma per quanto nella lettera qualcuno abbia voluto veder le prove del fatto che a Galileo gli oroscopi stessero qua, non si scappa che due libri del nostro  contengono oroscopi da lui stesso compilati. “Sappiamo che Galileo effettuava le natività, cioè gli oroscopi basati sulla data di nascita, e si arrabbiava con chi non li prendeva sul serio”, assicura Bruno Resta nel suo controverso “Da Galileo a Ustica”. Nulla di nuovo: i potenti hanno sempre perseguitato o nel migliore dei casi deriso i “tecnici del paranormale”, siano essi astrologhi, maghi, alchimisti o chissà che. Salvo poi servirsene per i propri scopi e vantaggi, come fa re Saul nel paradigmatico episodio della negromante citato dalla Bibbia nel primo libro di Samuele (“Predicami il futuro, chiamandomi l’anima di un morto: fammi salire colui che ti dirò…”). E comunque, tornando a bomba su Galileo, dite: vi sembra che uno così, aldilà dei vantaggi economici, potesse fare delle cose di cui non fosse in qualche modo convinto? Tagliando dunque la questione con il rasoio di Ockham, non possiamo che concludere che sì: gli oroscopi Galileo li faceva, ci guadagnava e ci credeva.

Era raccomandato

Della protezione del marchese Guidubaldo del Monte [a destra, ndr] e del suo fratello cardinale s’è detto. Del granduca di Toscana Cosimo de Medici, quello delle lune di Giove, che gli concesse uno stipendio annuo di 1000 fiorini “senza essere sottomesso a nessun lavoro obbligatorio, e senza nessun incarico da disimpegnare”, anche. Potremmo continuare con la lettera di aiuto scritta a Cristina di Lorena granduchessa madre nel 1615 dopo le accuse presentate al Sant’Uffizio da Tommaso Caccini che gli procurarono la prima ammonizione. O ricordare che, dopo quella stessa ammonizione, fu proprio il suo finto nemico Bellarmino a scrivere una dichiarazione “in tutela del suo onore”. Ma la verità è che la lista delle raccomandazioni di cui Galileo ha sempre goduto (così fan tutti?), a dispetto anche in questo caso della sua immagine di vittima del potere e dell’oscurantismo religioso, non finisce certo qui. E la maggior parte di essa, guardacaso, parte proprio dall’alto ambiente ecclesiastico. Gli appoggi dei del Monte furono per esempio determinanti nel fargli trovare la cattedra di professore di matematica a Pisa (il suo primo lavoro: con uno stipendio iniziale di 60 scudi l’anno), e poi a Padova (180 fiorini: praticamente tre volte tanto) cattedre alle quali Galileo peraltro pervenne privo di titolo accademico giacchè nel 1585, dopo aver studiato inutilmente medicina su ordine del padre, aveva lasciato l’università per tornarsene a Firenze senza aver conseguito nessun diploma. E che dire poi del cardinale Maffeo Barberini, toscano come lui e suo grande ammiratore, eletto nel 1623 addirittura Papa con il nome di Urbano VIII, e al quale Galileo dedicò pure l’opera “Il saggiatore”?  O dell’altro Papa Paolo V (1605-1621) con il quale ebbe anche un lungo colloquio privato? O ancora del Collegio dei Gesuiti, i potentissimi sacerdoti scienziati-astronomi-filosofi, sempre pronti ad appoggiarlo e incoraggiarlo, oltreché naturalmente a condividerne le ricerche sulla reale natura dell’universo?
Curioso: il Galileo Galilei gran perseguitato dalla Chiesa, aldilà dell’episodio dell’abiura, ne esce alla fine come un figlio prediletto. Amato e coccolato da tutti. Difeso proprio dagli stessi uomini del Sant’Uffizio dalle accuse di eresia mossegli da Cesare Cremonini (il professore di filosofia più prestigioso di Padova: quello che si rifiutò persino di guardare dentro il cannocchiale di Galileo), da Caccini, e in generale da tutto l’ambiente accademico pisano e fiorentino suo vero persecutore. Ospitato anche nei suoi ultimi anni nella villa dell’arcivescovo di Siena Ascanio Piccolomini, uno dei tanti cardinali che gli volevano bene,  e “della cui gentilissima conversazione io godetti con tanta quiete e soddisfazione dell’animo mio”. Persino la benedizione con l’indulgenza plenaria del Papa nel momento del trapasso. Alla faccia del perseguitato. Era un cocco, altroché.      

Copiava

È opinione diffusa che alcune idee fondamentali del pensiero galileiano, prima ancora che nell’ambiente colto gesuita, si sarebbero formate sugli scritti di vari pensatori medievali, di cui Galileo sarebbe venuto a conoscenza attraverso i manoscritti di Leonardo Da Vinci. Un altro grande esploratore della storia della scienza, Alexander Koyré, presenta nei suoi “Studi galileiani” (1939) un Galileo fortemente influenzato dal platonismo. Fra le fonti più importanti, tutti sono concordi nell’indicare Giordano Bruno, il filosofo nolano praticamente suo contemporaneo, che a differenza di Galileo si rifiuta di firmare il documento di abiura (e difatti viene arso sul rogo di Campo dei Fiori nel 1600). A suggerire il riferimento è la forma delle loro opere letterarie pro-Copernico – i “Dialoghi” di Galileo, appunto, e la “Cena delle Ceneri” di Bruno – ritenute sotto molti punti di vista affini. Lo indica, in chiave narrativa, la presenza di un identico esperimento immaginario. Lo dice chiaro la scelta in entrambe le opere, a mo’ di sostegno della tesi sulla relatività dei moti (le basi della relatività di Einstein del 1905), dell’immagine della nave in movimento, il “gran naviglio”, e della caduta di una pietra dall’albero maestro. Scopo dell’immagine: dimostrare che nessun esperimento fisico effettuato a bordo avrà esito differente se la nave è ferma o in movimento “purchè il moto sia uniforme e non fluttuante qua e là”. Relatività che non è neanche poi un’invenzione di Bruno, visto che sul moto relativo c’è una lunga tradizione che parte addirittura con i paradossi di Zenone di Elea (quello di Achille e della tartaruga) per sfociare in età classica con il “De rerum natura” di Lucrezio (“la nave che ci trasporta e sembra restare immobile/quella che è ferma all’ancora e sembra che ci oltrepassi”, i versi) o con Virgilio nell’Eneide, quando racconta la fuga di Enea da Troia incendiata, o ancora con il grande filosofo scettico Sesto Empirico [a destra, ndr].
Anche Keplero saccheggiò parecchio materiale da Bruno. Il che non sarebbe neanche grave se solo si fossero sognati di nominarlo. Cosa che Galileo si guarda bene dal fare. Perché? Per presunzione, forse. O magari per l’”idea monumentale che Galileo aveva di se stesso”, come gli rimprovera William R. Shea. Ma molto più probabilmente perché il cattolicissimo Galileo mai e poi mai avrebbe ammesso di aver ficcato il naso nelle sue opere. E figurarsi poi l’idea di citarlo: lui, l’eretico, il “cattivo maestro”, il diavolo in persona. Vade retro. “Solo nominarlo – garantisce Anacleto Verrecchia, gran studioso di Bruno – sarebbe stato pericoloso”.

Pauroso

Bruno non abiura e finisce al rogo. Galilei col cavolo. Non subisce tortura (ma c’è chi sostiene il contrario), non gli torcono un capello, non passa nemmeno un minuto in galera. Lui butta subito la spugna e s’inginocchia: ho sbagliato tutto, ho detto solo delle grandi bischerate, chiedo scusa a tutti. Certo, come fa dire Alessandro Manzoni al don Abbondio dei “Promessi sposi”,

“chi non ha il coraggio non può mica darselo”,

 e questo basta e avanza per giustificarlo. “Ho avuto paura del dolore fisico”, gli mette in bocca Bertold Brecht nel suo lavoro teatrale “Vita di Galileo”. E chi può dargli torto? Nessuno. Piuttosto, converrà chiedersi dell’altro. Per esempio: perché mai i cardinali avrebbero dovuto metterlo alle strette, dopo che per tutta la vita lo avevano sempre cavato da ogni impiccio, sia fuori che dentro il tribunale della Santa Inquisizione, spronandolo nelle sue ricerche e condividendole pure?

Mistero. Non si sa. La storiografia avanza solo ipotesi. La più accreditata è che in realtà Galileo non avesse trovato il sistema di difendere scientificamente il copernicanesimo, presentando al Papa e ai cardinali calcoli, dati di osservazione, insomma prove concrete che sostenessero l’ipotesi eliocentrica (ipotesi che ammetteva persino Bellarmino [a destra, ndr], anche se solo per semplificazione del calcolo astronomico). Nei quattro giorni di processo, alla fin fine, l’unico argomento scientifico presentato da Galileo era quello delle maree. Ed era, come si sa, un argomento sbagliato.
Altra ipotesi è  quella avanzata da Pietro Redondi nel suo “Galileo eretico”, secondo cui la condanna non c’entrava nulla con Copernico, bensì con l’eresia eucaristica. Un attentato al dogma della transustanzazione: sostenendo che la materia è fatta di atomi, in sostanza, si sostiene implicitamente che dentro l’ostia succede altrettanto, e dunque non ci sia posto per il corpo di Gesù Cristo. E ancora: l’inginocchiarsi di Galileo non sarebbe stato un atto di viltà nei confronti delle proprie convinzioni scientifiche, ma un atto dettato proprio dal suo profondo cattolicesimo. No, giurano il già citato Shea e altri: è stato Galileo ad andarsela a cercare con la non imparzialità del suo “Dialogo”, opera per la quale lo scienziato toscano – forse è il caso di sottolinearlo – aveva ricevuto l'imprimatur, cioè l’autorizzazione alla stampa, da parte della stessa autorità ecclesiastica che poi lo avrebbe processato. “Dialogo” nel quale, soprattutto, avrebbe fatto fare la figura del fesso proprio a Urbano VIII, incarnandone le argomentazioni nel personaggio di Semplicio, il professore aristotelico che – nella non imparzialità dell’opera appunto – è quello che ne esce con le ossa rotte.

Più suggestiva ancora, perché fuori dagli schemi, l’ipotesi che fa Resta nel già citato “Da Galileo a Ustica”,  secondo cui  il processo al Galileo “copernicano” sarebbe stato in realtà un astuto espedienti di facciata dietro cui nascondere la vera natura dell’inquisizione cardinalizia: ossia le ricerche di Galileo in un ambito che si potrebbe definire oggi paranormale. Tipo la trasmissione a distanza “per simpatia di certi aghi calamitati”, come racconta Sagredo nello stesso “Dialogo” verso la fine della Prima Giornata. O per l’aver detto “i miracoli, che si dicono essere fatti dai santi, non essere veri miracoli”, come lo accusa il frate domenicano Tommaso Caccini nel 1615, provocandogli sotto Paolo V di fatto la prima, controversa e mai più esibita ammonizione.

Buon cristiano

Amico di Papi e cardinali, cattolico e credente, uomo di chiesa come pochi. La Bibbia non deve insegnare come “vadia il cielo” bensì come “si vadia al cielo”, scrive nella già citata lettera a Cristina di Lorena, dove rivendica sì l’autonomia della ricerca scientifica, ma ben circoscritta all’interno del quadro teologico-morale fornito dalla Sacre Scritture. Che mai e poi mai avrebbe pensato di forzare con il grimaldello del cannocchiale, di Copernico o degli esperimenti.
Eppure Galileo proprio uno stinco di santo non era. Del fatto che fosse sempre in cerca di quattrini, si sa. Della denuncia di sua madre Giulia Ammannati, donna prepotente, preoccupata che i danari di Galileo continuassero a mantenere bene lei e gli altri suoi figli (due fratelli, quattro sorelle), e non venissero dissipati “giacendo con amanti” o altro, s’è detto. Semmai non s’è parlato dell’amante: Marina Gamba, la donna che visse 12 anni con lui senza sposarsi e in case separate, e di cui Galileo non riconobbe nemmeno uno dei tre figli nati dalla loro unione. Mica un grande senso delle responsabilità, bisognerà ammetterlo. E quanto all’amore filiale, ve lo raccomandiamo. Dei tre (Vincenzo era l’unico maschio), le due figlie Virginia e Livia finirono diritte dritte per sua volontà in convento ad Arcetri,  dove il vecchio Galileo – ma vedi un po’ gli scherzi del destino – avrebbe trascorso i suoi ultimi giorni di esistenza terrena. Cose da non credere: Galileo Galilei, lo scienziato antidogmatico per eccellenza, che affida le figlie proprio ai più irriducibili nemici della  ragione. E c’è di più: per essere stata sbattuta in convento, Livia, che prese i voti con il nome di suor Arcangela, lo odiò a morte e non lo volle neanche più vedere durante i pochi anni che le restarono da vivere. Mentre all’altra, Virginia, divenuta suor Maria Celeste, e che nonostante tutto continuava a dimostrargli un enorme affetto (non ricambiato, of course), Galileo ebbe invece la squisita sensibilità di rifilare i salmi penitenziali che il tribunale ecclesiastico gli aveva ordinato come pena aggiuntiva dopo l’abiura del 1633, incaricandola di recitarli quotidianamente in sua vece.        

Quanto al carattere si sarà capito. L’odio del mondo accademico toscano deriva in buonissima parte dal suo modo arrogante, aspro, senza un minimo di riguardo, di porsi in ogni discussione di tipo scientifico. Discussioni in cui Galileo, un po’ come certi personaggi dei talk show televisivi, sfruttava le sue doti di grande comunicatore tendendo più all’umiliazione del contraddittore che a una serena e oggettiva disanima delle idee. Come successe fra i tanti al già ricordato padre Grassi, gran studioso e uomo di cultura, che per avergli ribattuto nel 1618 che le comete erano oggetti reali (e non “illusioni” come diceva Galileo) si prese, in ordine sparso, della “serpe lacerata”, dello “scorpione” e della “solennissima bestia”.  Insomma, ce n’è abbastanza per dare ragione a Ludovico Geymonat, quando dice, a proposito del Galileo uomo, che “anche gli uomini più grandi portano spesso, nel loro carattere, qualche lato indegno della loro grandezza”.         

Imbrogliava

“Osservò come, indifferentemente dalla lunghezza degli archi descritti, le oscillazioni avessero tutte la stessa durata”.

 Così si legge, in una delle tante biografie galileiane, a proposito dei movimenti dalla lampada-pendolo nella cattedrale di Pisa.  Frasi come questa – e se ne leggono tante – danno l’esatta misura di quel che andiamo dicendo. Osservò, questo è il punto. In scienza la durata del tempo non si osserva, si misura. Lo si fa in maniera rigorosa, precisa. Possibilmente con strumenti di precisione che nel Seicento, dato lo stato di arretratezza della tecnica, non erano nemmeno lontanamente a disposizione. Di sicuro non con clessidre a sabbia o acqua, o con il battito del polso come si è già scritto. Proprio da qui, dalla questione degli orologi mancanti a cui fanno da capofila studiosi mondiali come il già ricordato Koyrè e R. Hall, è scaturito il filone di critica più affilato dell’intera storiografia galileiana. Quello secondo il quale, alla fin fine, Galileo avrebbe prodotto prove al di fuori della sua portata, e  buona parte dei suoi famosi esperimenti non li avrebbe in realtà manco mai fatti.

E se invece fosse il contrario? Non cambierebbe niente. Perché se anche li avesse fatti, come ha spiegato Federico Di Trocchio, professore di storia della scienza all’Università di Lecce, nel suo documentatissimo saggio “Le bugie della scienza” edito da Mondadori (alle “bugie” di Galileo è dedicato uno dei primissimi paragrafi) , i risultati sarebbero stati… diversi.  Come nel caso della caduta dei “gravi” dalla Torre di Pisa, esperimento questo di cui l’unica traccia o documento storico è il racconto di Vincenzo Viviani allievo di Galileo (mica il massimo dell’obiettività: bisogna ammetterlo), rifatto pari pari nel 1978 dal duo Adler-Coulter, nel quale due corpi di peso diverso non toccano terra in contemporanea. O come l’altro mitico esperimento di Galileo, quello con il piano inclinato (da cui la formula del moto uniformemente accelerato), ripetuto con esiti molto diversi nel 1973 da Ronald Naylor, lo stesso che ha “bocciato”, ri-sperimentandola, la già ricordata prova dell’isocronismo del pendolo. “Decisamente fraudolento”, scuote la testa Shea.
Già. Più idee rivoluzionarie, par di capire, che test scientifici più o meno raffinati o riusciti.  Più mito. Più leggenda, così come il celebre “Eppur si muove” che Galileo avrebbe pronunciato battendo il piede per terra all’uscita dal tribunale del Sant’Uffizio dopo la storica condanna del 1633 (o mormorandolo fra sé e sé: anche i suoi molti propagandisti non si sono messi d’accordo): un altro falso storico, scrive Vittorio Messori, secondo il quale la frase venne coniata a Londra, nel 1757, dal “brillante e spesso inattendibile” giornalista Giuseppe Baretti.

Furio Stella


Post scriptum.

Caro Galileo. Scusami se ho scritto cose poco carine di te. Ma la colpa – lo ammetterai – è un po’ anche tua: hai voluto tu il metodo scientifico, e adesso, come la storiella della bicicletta, pedala. In queste notti d’estate, dal terrazzo di casa mia al civico 3 di una delle tante vie Galileo Galilei che ti hanno intitolato,  mi viene in mente quella frase, com’era?, sulla cultura del tuo tempo così restia ad accettare qualsiasi novità, e dei  “Sommi Ignoranti” – ecco, così li chiamavi – a cui è stato assegnato il compito di spazzare via tutto ciò che è innovativo e proviene dalla ricerca autentica. Bene: sono passati quasi 400 anni, il Papa ti ha anche assolto dall’accusa di eresia con 359 anni di ritardo, e adesso, pensa un po’?, i “Sommi Ignoranti” ti intitolano vie, strade, piazze, convegni, persino anni interi, e si fanno forti anche del tuo nome per zittire gli eretici, i geniali e gli innovativi di oggi. Astuzia, retorica e propaganda, altro che scienza e ragione. Come vedi, non è cambiato un beato accidente. Stammi bene, e salutami tanto Newton e Keplero.


APPENDICE –

Di Trocchio: << Immagine costruita a fine ‘800 >>

Federico Di Trocchio, romano, 55 anni, insegna Storia della Scienza all’Università di Lecce ed è autore di numerose opere di storia della scienza. Ha avuto modo di approfondire l’argomento, tra gli altri, nel suo libro del 1993 “Le bugie della scienza”, in cui ha dedicato a Galileo Galilei un intero paragrafo del primo capitolo. Otto pagine (titolo: “Gli esperimenti che Galileo non fece”) a cui abbiamo attinto buona parte delle informazioni a proposito degli  esperimenti “truccati”. Si è anche occupato di Galileo nel “Genio incompreso”, nel quale sostiene che a portare lo scienziato davanti al tribunale dell’inquisizione sarebbero stati in realtà i suoi colleghi invidiosi delle accademie pisana e fiorentina.

Sul processo – spiega Di Trocchio – mi sono rifatto soprattutto all’analisi di Giorgio De Santillana, il grande storico e studioso italiano costretto a emigrare negli Stati Uniti. Nel suo classico “Il processo di Galileo”, pubblicato molti anni fa, è stato il primo a chiarire che Galileo fu fondamentalmente “fregato” dai colleghi. La Chiesa, anzi, fu quella che provò finchè fu possibile, soprattutto con il cardinale Bellarmino, a difenderlo”.

Raccomandazioni, plagi, oroscopi: sarà d’accordo che l’immagine di Galileo non coincide con quello che s’impara (o s’insegna) su di lui…
“Non possiamo dimenticare che l’immagine di Galileo che adesso va per la maggiore è frutto di un curioso incrocio, avvenuto nella seconda metà dell’Ottocento, tra scientismo e positivismo laico e massoneria, che sfocia a fine secolo con la stampa libertaria. Il libro di White (Andrew Dickson, il primo presidente della Cornell University, che parlava apertamente di “guerra fra scienza e teologia dogmatica”, ndr) è del 1918 ed era centrato sulla vicenda di Galilei. Che, da quel momento, divenne un martire dell’oscurantismo religioso”.

E sugli esperimenti e la questione dello “fudge factor” (il “fattore di aggiustamento” dei calcoli): è proprio vero che Galileo imbrogliava?
“Come dico nel mio libro: non esagererei. Galileo ha messo insieme vari pezzi di indagine, e ha “aggiustato” i dati dopo aver genialmente intuito come stessero le cose. Non è paragonabile agli imbrogli della scienza di oggi. Koyrè dice che l’esperimento del piano inclinato non l’ha fatto, Naylor che i dati non gli vengono e che dunque si era inventato tutto. Io dico che bisogna stare attenti ai pro e contro. Non dimentichiamoci che la fisica l’ha inventata Galileo. Prima di lui, balbettavano”.

Ma lei, alla fin fine, che idea s’è fatto di Galileo?
“Era un toscanaccio astuto, abile. Anche un grande sciupafemmine, ma ha lasciato nel bene e nel male un’orma indelebile nella storia della scienza. Anche la sete di denaro degli scienziati d’oggi può essere fatta risalire al suo esempio. Lui, infatti, ne aveva sempre bisogno e cercava di sfruttare le sue scoperte anche per guadagnarne. E anche un certo non rispetto della natura da parte della scienza, l’idea della necessità di aggredirla e violentarla attraverso gli esperimenti, è sostanzialmente sua e di Bacone. Fare della natura quel che vogliono, fino alla bomba atomica: la scelta sul modo di fare scienza da parte degli scienziati attuali nasce da lì. Ma sul piatto della bilancia bisogna metterci i meriti e i demeriti. Il mio lavoro storiografico si muove su tutti gli aspetti. Dunque, e lo dico senza intenti celebratori, nessuno più disconoscere i meriti di uno che ha portato luce estrema nella visione del mondo, analizzando con chiarezza e difficoltà. Galileo è stato come accendere la luce in una stanza buia”.
(f.s.)


Riferimenti

– Luciano Benassi, “Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia”, Piemme.
– Pietro Redondi, “Galileo eretico”, Einaudi 1983.
– Federico Di Trocchio, “Il genio incompreso”, 1997 e “Le bugie della scienza”, Mondadori 1993.
– Alexander Koyré, “Studi galileiani”, Einaudi 1976.
– Vittorio Viccardi, “Galileo Galilei: un po’ di verità”, dal sito www.kattolico.it (sito che riporta numerosi contributi e approfondimenti di Messori, Di Trocchio, Shea e altri) .
– Vittorio Messori, “Pensare la storia”, Ed. San Paolo.
– Thomas Lessl, “La leggenda di Galileo”, New Oxford Review (traduzione di Acquaviva 2000, dal sito www.acquaviva2000.com.)
– Ludovico Geymonat, “Galileo Galilei”, Einaudi 1957.
– Anacleto Verrecchia, “Giordano Bruno. La falena dello spirito”, Donzelli 2002.
– William R. Shea, “La rivoluzione intellettuale di Galileo”, Sansoni.
– Bruno Resta, “Da Galileo a Ustica”, Ultreja 1997.
– Liceo Classico “Cavour” di Torino, “Il cielo di Galileo” (indagine multimediale della classe III D presentata nel novembre 2004 a Torino, e presente anch’essa in rete).  


[Immagine in apertura: Galileo che dimostra le sue nuove teorie astronomiche all'Universià di Padova, di Félix Parra (1873), conservato presso il Museo Nacional de Arte di Città del Messico.]


Il presente articolo è stato pubblicato originariamente su NEXUS New Times n. 57 (Agosto – Settembre 2005). Ogni ripubblicazione è gradita previo riferimento all’autore ed a questa citazione.


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