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Il mondo oltre Vicenza (parte seconda)

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La prima parte di questo articolo risale al febbraio del 2007. Considerando che siamo ormai entrati decisamente nel mese di ottobre del 2008, una distanza di circa 20 mesi potrebbe sembrare eccessiva; in un periodo epocale che sembra avere fretta di fare tutto e subito. Sapete, è come quando bisogna partire da un posto in tempi brevi e si cerca di fare tutto quello che poi non si potrà più fare. Uguale.

Invece il tempo trascorso, non era programmato, ha permesso di vedere meglio gli eventi intorno alla questione vicentina; che poi, come comprenderà chi vorrà affrontare la lettura della seconda parte di questo articolo (corposa, a dire il vero), non riguarda solo i vicentini. Non solo ai vicentini sta cascando il mondo addosso.

 

 

 

Il mondo oltre Vicenza

(parte seconda)

 

Era giugno, esattamente l’otto giugno del 2007, un venerdì. In mattinata una mia amica veneta mi aveva informato che le autorità militari USAensi della Ederle vicentina avevano deciso di aprire le porte della caserma di Longare per una visita guidata alle strutture militari lì presenti. Occorreva contattare il portavoce della caserma Ederle, del quale ebbi il telefono per gli accrediti necessari a partecipare all’incontro che il generale Frank Helmick avrebbe avuto con la stampa.
Naturalmente, in quello stesso primo pomeriggio, (l’indomani sarebbero state aperte le porte della Base di Longare) mi premurai di prendere contatto con il sergente maggiore portavoce della caserma Ederle, – persona davvero gentile e disponibile, va detto a suo merito – che però mi comunicava che la visita era limitata ai giornalisti locali (ed io non lo ero) anche perché, si premurava di spiegarmi il sergente maggiore, il luogo dove si sarebbe svolto l’incontro del generale con la stampa locale non era sufficientemente ampio.

Una data particolare, quella del 9 giugno. Infatti proprio in quel giorno era atteso in Italia il Presidente degli Stati Uniti George Bush che si sarebbe incontrato con il Presidente del Consiglio Romano Prodi. Nell’incontro fa i due presidenti, come già informava lo stesso generale Helmick il 27 maggio 2007, certamente sarebbe stata trattata – e sbloccata – la questione di quella precisa area del Dal Molin richiesta dalla SETAF. Occorre rendere noto che già dall’ottobre del 2006 a tre mesi dal suo arrivo al comando della SETAF, lo stesso generale Frank Helmick precisava che dal comando SETAF era stato manifestato interesse per l’acquisizione di uno spazio, già identificato, all’interno dell’area Dal Molin notoriamente di proprietà del demanio militare, nel quale sarebbe stata costruita una nuova caserma secondo le necessità organizzative della SETAF. Un progetto, denominato “Vision 2020”, che prevede (Congresso USA concorde) una spesa di un miliardo di dollari, metà dei quali da spendere proprio nell’area Dal Molin dove è previsto lo spostamento dell’intero quartier generale e dei relativi uffici che attualmente sono ospitati nella caserma Ederle dove sarà spesa l’altra metà del miliardo di dollari che saranno utilizzati per buttare giù le basse palazzine esistenti per costruire un numero minore di edifici, ma più alti, per recuperare spazio verde. Edifici e verde circostante destinati ad ospitare anche i familiari dei due battaglioni della 173a Brigata che verrà trasformata in un reparto aviotrasportato di paracadutisti.

La grandezza dei lavori in corso e il relativo enorme costo previsto ci informano, se qualcuno fosse lacerato da dubbi illusori, che le forze armate USAensi hanno intenzione di rimanere a Vicenza per lungo tempo. È in questa città che si vuole costruire la base militare destinata a divenire il fulcro militare statunitense del sud Europa. (Questa gigantesca riorganizzazione che non riguarda solo Vicenza potrebbe forse prevedere l’abbandono logistico di Napoli e prepararsi a sostenere eventuali difficoltà operative da parte della Nato?)

Dall’interno di questo generale scenario partiva la richiesta di assegnazione di quella precisa area del demanio militare italiano, ed è stata premura del comando SETAF, così chiariva allora il generale Helmick, di coinvolgere in questo progetto di ampliamento e riorganizzazione strutturale militare le autorità italiane a tutti i livelli: quello locale, quello regionale e quello nazionale. La scelta della data, poi, (il 9 giugno appunto) naturalmente non era casuale. La SETAF voleva che nel momento in cui a Roma si stavano svolgendo manifestazioni contro la visita del presidente degli USA, a Vicenza, a Longare in particolare, fosse invece visibile il buon rapporto fra le autorità militari USAensi e la popolazione locale. Una tempestiva operazione mediatica come si può arguire.
Ancora sotto i riflettori mediatici ritroviamo il generale Helmick e il colonnello Bordonaro mentre insieme ai vertici del comando SETAF, presiedono una conferenza stampa che si è svolta qualche giorno dopo, esattamente giovedì 14 giugno 2007, presso la Caserma Ederle. Durante la conferenza stampa viene resa di pubblico dominio una nota ufficiale dell’ambasciatore USA Ronald Spogli.
L’ambasciatore informa il comandante della SETAF che il Presidente Prodi ha personalmente confermato al Presidente Bush, proprio nel giorno della sua visita a Roma, che l’accordo relativo alla concessione dell’area Dal Molin per le esigenze riorganizzative della SETAF sarebbe stato rispettato. Non solo, l’ambasciatore rassicurava il generale Helmick che il governo degli Stati Uniti ha ricevuto l’avallo scritto autorizzativo del progetto e il via libera alla sua attuazione.
Ma conviene ritornare a quel 9 giugno, a Longare, dove (avendo letto le righe qui sopra) il nostro generale Helmick appare, appunto, sorridente e sicuro di sé.

L’impossibilità di partecipare a questo incontro, che il generale Helmick avrebbe avuto con gli amministratori locali di Longare e con i giornalisti del mondo informazionale locale, mi costrinse a rivedere il mio piano di lavoro. Infatti, ritenevo, partendo da quell’occasione del 9 giugno, nel quale si poteva prendere visione di quel chiacchierato sito collinare di Longare, di dare seguito all’articolo pubblicato sul sito delle Edizioni Nexus intitolato “Il mondo oltre Vicenza”. Pur continuando a raccogliere dati sulla spinosa questione vicentina, mi ritrovai nel vortice della stesura del libro che chiedeva sempre più tempo da dedicargli e che è stato pubblicato recentemente.
Ora, portato a termine quell’impegno che mi aveva veramente occupato tutto il tempo libero di cui potevo disporre, a distanza di più di un anno e mezzo, potevo riprendere la stesura di questa seconda parte.
Riprendiamo dunque i fili discorsivi, solo sospesi e mai interrotti.
Avevo preso contatto, in quello stesso venerdì 8 giugno 2007, con un giornalista de Il Giornale di Vicenza, di cui sempre la mia amica mi aveva passato i riferimenti telefonici, a cui avevo chiesto di farmi avere delle foto fra quelle che sarebbero state scattate durante la visita che si sarebbe svolta l’indomani sabato 9 giugno. Per facilitare l’operazione di invio avevo anche lasciato il mio indirizzo di posta elettronica.
Passò del tempo e, non avendo ricevuto le foto ricontattai il collega vicentino rammentandogli quella mia esigenza di avere le foto di quella visita a Longare effettuata nell’ormai lontano (giornalisticamente) 9 giugno. La telefonata infatti si stava svolgendo nel primo pomeriggio del 2 luglio 2007, era un lunedì.
Venivo informato dal mio interlocutore che il fotografo che era stato presente alla visita a Longare era in ferie ma che mi avrebbe potuto aiutare un secondo fotografo de Il Giornale di Vicenza con il quale venni messo in contatto. Dovevo ufficializzare la richiesta con un sms; cosa che avvenne prontamente, da lì a qualche minuto.
Nel giro di due settimane circa ricevetti le foto.
Giusto per non lasciare nulla di intentato (un vizio giornalistico), in quello stesso giorno dell’8 giugno mi misi anche in contatto con la televisione TVA di Vicenza. Parlai con il Direttore, presentandomi come giornalista, al quale chiesi se fosse possibile ottenere il girato della visita che sarebbe stata effettuata l’indomani nella caserma di Longare. Venni rimbalzato alla segreteria della TVA che avrei dovuto contattare il lunedì seguente.
Ipotizzando che forse ci sarebbero state difficoltà ad avere il girato retrocessi alla richiesta della copia di quanto era stato trasmesso dalla TVA lo stesso 9 giugno o/e nei giorni seguenti.
Diedi mandato ad un mio amico vicentino di contattare la segreteria per sapere come fare per ottenere il girato o almeno una copia della trasmissione effettuata.
Dopo quattro telefonate alla TVA fra le ore 10 e le ore 19 del giorno 11 giugno e dopo 3 telefonate fra le 10 e le 15 del 12 giugno, senza riuscire ad avere nessuna risposta, il mio amico, scusabile, non essendo giornalista, si arrende e mi comunica che non riesce ad avere nessuna risposta circa la mia richiesta.
La motivazione di questo rinvio sine die da parte di una segretaria sempre formalmente gentile si aggirava intorno al direttore che non c’era, che senza il benestare del direttore, che alla segreteria continuava a non giungere, non si poteva dare avvio alla richiesta. Fatto sta che da allora (dal 12 giugno 2007) eravamo giunti al 2 luglio 2007. Dunque ripresi personalmente a chiamare al telefono la segreteria della TVA vicentina. Mi venne assicurato che sarei stato richiamato, sia il lunedì 2 che il martedì 3 luglio. Naturalmente non ricevetti nessun tipo di chiamata, quindi richiamai io nel pomeriggio di mercoledì 3 luglio. Finalmente mi venne assicurato che sarebbe stato predisposto non un girato ma la copia della trasmissione video della TVA. Di solito fra giornalisti dovrebbe esserci un po’ di attenzione, mica tanto, proprio quella che basta. Comunque un giornalista non demorde mai e sopravvive anche ai muri di gomma fattuali.
Fatto sta che finalmente, previo pagamento di fattura datata 20 luglio 2007 ricevo, attraverso il mio amico vicentino che lo ritira per me, come è scritto nella stessa fattura, un dvd contenente servizio tg caserma longare fair pluto del giugno del 2007.
Se avessi avuto fretta nel predisporre la seconda parte dell’articolo sulla questione dell’ampliamento della Ederle, mi avrebbero, tutti questi eventi ostativi e rallentativi, certamente danneggiato. Ma non ho avuto fretta. Come si vede dalla data di questo articolo.
Attraverso questo dvd entriamo nella caserma di Longare oggi per allora (quel 9 giugno che ormai sappiamo) insieme agli amministratori locali e quindi ai giornalisti accreditati del mondo informazionale locale e conosciamo il generale Frank Helmick comandante della caserma Ederle, che ha fatto gli onori di casa insieme al colonnello italiano Salvatore Bordonaro. Il colonnello, dopo la visita che una delegazione del consiglio comunale di Longare farà alla base, su invito del generale Helmick nel mese di settembre del 2007, come tratto da un articolo di Albano Mazzaretto de Il Giornale di Vicenza del 19 settembre 2007, a chi gli chiedeva cosa ci fosse prima del 1992 nella base Pluto, cripticamente risponderà che quello che c’era “nei bunker usati ora come depositi, “non era cioccolata”. Ma non è pertinenza del comando militare italiano indagare sul passato di questa base, e tanto meno raccontarlo”.
Noi intanto prendiamo atto delle informazioni che sono state date alle persone convenute nell’area della base in quel 9 giugno 2007.
“Oggi si scrive una pagina nuova nel rapporto fra la caserma e il territorio” dice il giornalista della TVA che apre il servizio, e ricordando la caduta del muro di Berlino nel 1989 (non nel 1992) avvenuta 18 anni prima (non 15) si lancia: “È caduto oggi l’ultimo presupposto che alimentava timori e paure o almeno questo era l’intento tranquillizzante del comandante della caserma Ederle generale Helmick”.
Il servizio prosegue mostrando il comandante Helmick e il colonnello Bordonaro, nello sfondo di cartine rappresentanti la parte superficiale del sito militare appositamente predisposte, che spiegano:

  1. Longare è oggi un grande magazzino dismesso, un deposito di materiali alcuni anche in attesa di essere buttati.
  2. Il nome Pluto non sta per plutonio ma è il nome della mascotte dei carabinieri di guardia alla base. (gli amici della Benemerita leggono anche Topolino, veniamo simpaticamente a sapere)
  3. A Longare non ci sono tunnel, l’unico che c’è è murato da anni e comunque è raggiungibile dalla parte opposta dove si trova la villa del Conte Da Schio.
  4. La terra nera di misteriosa provenienza che esce in questi giorni altri non è che asfalto rimosso per le strade che si stanno rifacendo.
  5. I presunti depositi dei materiali nbc nucleari batteriologici e chimici contengono maschere, attrezzature ed altro per proteggere i soldati appunto in caso di attacchi nucleari batteriologici e chimici.
  6. I lavori che si stanno svolgendo nella base riguardano il rifacimento della rete idrica e del tetto della clinica veterinaria.
  7. A Longare ci sono i mezzi e i cani della polizia militare.
  8. Per il passato gli attuali comandanti non hanno né titolo né competenza per rispondere.
  9. Sull’attualità e sulle prospettive le rassicurazioni sono chiare: è a questo punto che il giornalista intervista il generale:
Alla fine dell’incontro con gli amministratori e i giornalisti, tutti vengono invitati a prendere visione della parte “segreta” della base. Il giornalista, che con gli altri viene accompagnato all’interno di un hangar con funzioni di deposito, che ha la volta completamente ricoperta da rotoli di filo spinato, chiede al generale Helmick:
“Comandante forse qui una volta all’interno di questo hangar c’erano bombe atomiche, oggi che cosa c’è?”
Risponde, compiaciuto, il generale attraverso una interprete che sta al suo fianco:
“Lo vedete voi stessi, quello che abbiamo oggi è un magazzino, ci sono vecchie carte, badili, bauli, materiali per l’esercitazione”.
Chiede ancora il giornalista:
“Lo sarà anche per i prossimi anni?”
Risponde il generale.
“Si io non penso assolutamente che ci saranno cambiamenti nella destinazione d’uso”.
Il Generale prima della riunione ufficiale fra le autorità militari i giornalisti e gli amministratori comunali di Longare si è incontrato riservatamente con gli amministratori di Longare lì convenuti, a cui ha anticipato quanto sarebbe stato detto nell’incontro ufficiale che sarebbe avvenuto di lì a poco. Un incontro a cui le autorità militari hanno sottolineato di tenere particolarmente.
Vengono quindi intervistati gli amministratori di Longare lì convenuti.
Il giornalista si rivolge all’assessore alla pace:
“Assessore alla pace, allora oggi è più tranquillizzato?”
Risponde l’assessore:
“Si, molto più tranquillo, abbiamo visto cosa contengono questi siti, e questo ci serve per dare una informazione più corretta alla nostra cittadinanza, in modo da tranquillizzarla”.
Tocca poi al sindaco di Longare ad essere intervistato.
“Sindaco la sua impressione dopo questa visita”.
Risponde il Sindaco.
“Diciamo positiva per quanto riguarda non solo la volontà di aprirsi anche al territorio e qui come sindaco rappresento i cittadini di Longare; ma anche perché tutto sommato ha confermato le mie aspettative circa i contenuti di questa base”.
Visto che fuori dalla base alcuni cittadini di Longare, in quella stessa giornata, hanno manifestato con striscioni e slogans collegando i casi di Leucemia nel comune di Longare con le attività non rese pubbliche della stessa caserma.
Chiede ancora il giornalista:
“Si parla di leucemia, sette casi nel suo comune”.
“Si, vorrei capire come i casi sono stati evidenziati e quali sono le fonti esatte (di queste informazioni); perché parlare di sette casi. Il comune non ha queste informazioni, non le può avere”.

Se fossi stato presente in quel 9 giugno a Longare al Sindaco che, allora, ha affermato che già sapeva che la base non era un pericolo per la sua popolazione e che, mentre cade dalle nuvole circa i sette casi di leucemia di cui parlano i manifestanti e che tranquillamente fa sapere che il comune non può avere informazioni che riguardano la salute dei suoi cittadini – una sola (triplice) domanda:

Signor sindaco, come concilia la sua funzione di difesa della salute pubblica con la dichiarazione pubblica che allora ha fatto? Vorrebbe spiegare ai suoi cittadini, ora per allora, quali sarebbero i suoi compiti di primo cittadino di Longare in caso di pubblica epidemia? Vorrebbe spiegare ai suoi concittadini ammalati di leucemia per quale motivo non vuole o non può occuparsi di loro?

Vede Signor sindaco, possono anche essere comprensibili i problemi di convivenza e vicinato che derivano da un inquilino così debordante e incontrollabile come quello che si trova da decenni nel suo territorio; è meno comprensibile la mancanza di compassione che emerge (spero ingiustamente) nei confronti di suoi concittadini che soffrono per una malattia che potrebbe essere stata provocata da attività non note del suo inquilino debordante e (civilmente) incontrollabile.

Ma poi avrei cercato di incontrare il generale Frank Helmick che dalle fotografie e dalle riprese televisive, appare una persona simpatica che sembrerebbe non sottrarsi ad un incontro con un giornalista, compatibilmente con il raro tempo disponibile per un generale con un incarico importante come il suo.
Vorrei, dunque, forte di questa simpatia per ora solo dipartentesi da me, chiedere al generale se potesse dichiararsi disponibile ad un colloquio digitale (o cartaceo se si vuole) nel quale io potessi rivolgermi a lui, come persona ben informata o in grado di ben informarsi, affrontando i temi scottanti di politica internazionale (con risvolti nazionali principalmente vicentini) che dilagano sui mass media nazionali ed internazionali.
Immaginiamo di trovarci, signor generale, in un luogo sia a lei che a me conosciuto. Immaginiamo di trovarci in quella saletta gremita anche di giornalisti (che conosco attraverso il video della TVA) dentro la caserma di Longare, dove Lei e il colonnello Salvatore Bordonaro vi siete sforzati di presentare il sito denominato Pluto come un’area sì militare ma capace di aprirsi alla cittadinanza locale e del quale i cittadini di Longare non hanno motivo di avere paura.
Lodevole intenzione, naturalmente, ma siccome ognuno fa il suo mestiere, anche i militari di alto grado dovrebbero riconoscere il diritto di un giornalista di scavare sotto le loro parole e visitare eventuali tunnel costruiti da eventuali loro (necessarie, naturalmente) bugie.
Ecco signor generale, mi piacerebbe immaginare che, oggi per allora e allora per oggi, ci trovassimo a tu per tu in quella stanza, per suo ordine abbandonata da tutti, seduti nelle prime sedie. Ci sarebbe il problema della lingua. Difficilmente il mio italiano e il suo inglese potrebbero trasformarsi in lingua psichica come accadeva nei tempi biblici prima della confusione delle lingue. D’altra parte anche l’interprete potrebbe disturbare. Allora, facciamo così, io parlo, e quindi scrivo, in italiano, presupponendo che Lei mi comprenderà perfettamente. Nello stesso tempo mi premurerò di curare una traduzione in inglese perché in qualche modo questo scritto La possa raggiungere in Iraq dove dai primi di maggio del 2008 assumerà un importante incarico.
Prima di tutto alcune domande che ritengo molto importanti.
Eccole.

Signor generale, è vero che il muro di Berlino è finito a pezzi come ricordo in qualche casa berlinese; ma questa gigantesca riorganizzazione militare degli USA a Vicenza non è vero che si basa fondamentalmente all’interno di uno scenario militare aggressivo nei confronti della Russia?

Signor generale visto che la Caserma di Longare è solo un deposito praticamente fatiscente, perché si stanno completamente rifacendo le strade di questo sito che pure si dichiara di importanza minore? Perché si riorganizza completamente la rete idrica?

Signor generale, prima di farLe le prossime quattro domande, vorrei farLe un racconto che Lei potrà interpretare liberamente.
Immagini di avere stampata in un riquadro orizzontale e rettangolare un’area di circa 10 chilometri per 7 chilometri (siamo in Italia e qui si misura a chilometri e non a miglia). Immagini che nell’angolo inferiore sinistro della foto si trovi la località San Gottardo, frazione di Zovencedo; sa, quel posto dove iniziarono ad accendersi fuochi improvvisi dal 14 febbraio del 1990, esattamente come accadde poi nel 2004 a Caronia in provincia di Messina. Oggetti metallici che prendevano fuoco, scaldabagni, apparecchiature domestiche, come aspirapolveri che si accendevano da soli. La notizia interessante sugli eventi incendiari di Caronia, perfettamente collegabile con gli eventi incendiari di San Gottardo e che si mostrerà perfettamente connessibile con quanto Le sto per raccontare, la pubblicherà il Settimanale L’Espresso il prossimo 26 ottobre di quest’anno. Sembra che ci leggano nel pensiero dal futuro questi giornalisti birichini de L’Espresso, signor generale, perché in quell’articolo, che a sua volta citerà un rapporto riservato del governo italiano del 2005 (prima che Lei assumesse il comando della Setaf), verrà scritto che i fenomeni di autocombustione sono attribuibili a “esperimenti militari” o, addirittura a “esperimenti alieni”. Sempre citando quel rapporto riservato verrà fatto riferimento a “tecnologie militari evolute anche di origine non terrestre che potrebbero esporre in futuro intere popolazioni a conseguenze indesiderate.” Di più nell’articolo verrà reso noto che: “Canneto di Caronia è stata colpita da fenomeni elettromagnetici di origine artificiale, capaci di generare una grande potenza concentrata. Fasci di microonde a ultra high frequency compresi nella banda tra 300 megahertz e alcuni gigahertz. […] Gli incidenti di Canneto di Caronia potrebbero essere stati tentativi di ingaggio militare tra forze non convenzionali, oppure un test non aggressivo mirato allo studio dei comportamenti e delle azioni in un indeterminato campione territoriale scarsamente antropizzato”.
Sempre in quell’articolo futuro, che richiamerà parti del rapporto riservato del trascorso 2005, si accennerà ad oggetti volanti non identificati che a più riprese sono stati visti dagli abitanti di Caronia mentre sorvolavano il loro territorio.
Una località interessante quella di San Gottardo, non crede signor generale? Ma vorrei, insieme a Lei, continuare ad osservare l’immagine di un territorio che conosce bene. Infatti sulla linea destra del riquadro (esattamente al centro del limite destro del riquadro) vedrà l’area dove si trova la base Pluto di Longare; un nome quello di Pluto che se non ci avessero rivelato che è (simpaticamente) la mascotte fumettistica scelta dei carabinieri di Longare, personalmente avrei pensato alla sigla Pluto, molto più consona agli ambienti militari. Mi risulta infatti che durante l’ultimo conflitto europeo (quello che impropriamente viene chiamato secondo conflitto mondiale) questa sigla indicava il sistema di oleodotti posati sul fondale marino dello stretto della Manica fra la Gran Bretagna e la Francia. Gli oleodotti servivano per rifornire di carburante i mezzi militari delle truppe alleate per riconquistare la Francia; ma soprattutto servivano per sostenere le necessità di carburante in vista dell’attacco che si voleva decisivo contro la Germania che sarebbe stato sferrato nel giugno del 1944. Il significato della sigla, che stranezza signor generale, si adatta bene sull’intera area che abbiamo appena definito; “Pipe line under the ocean” solo che invece che sotto il mare, sono oleodotti (e non solo) sotto terra, in vista di quale scontro finale collegato con il primo (vero) conflitto mondiale signor generale? Ma, giustamente, è una domanda che non posso più farle; mi ha azzittito con la mascotte della nostra Benemerita.
Nella parte centrale del lato sovrastante si trova invece la base sotterranea di Tormeno.
Ebbene (comincia finalmente il racconto, signor generale) mi trovavo nell’area rappresentata dall’immagine nella prima settimana di settembre dell’anno passato, non mi trovavo nelle vicinanze di nessuna delle località che Le ho indicate. Stavo risalendo un pendio fra gli alberi quando una piccola ape iniziò a girarmi intorno. Pensai che forse stavo disturbando un alveare e cercavo di identificarlo per potermene allontanare; ma non vidi nessun alveare, intanto l’apina (la piccola ape) mi sfiorava le orecchie con insistenza, come se volesse dirmi qualcosa. Feci dunque attenzione ed effettivamente mi stavano giungendo informazioni. La piccola ape eseguiva un ordine della regina dell’alveare che voleva che mi fosse trasmessa una informazione che a sua volta proveniva dalla regina di un formicaio di formiche molto più grandi di quelle che si trovano gironzolanti in superficie. Sono formiche che vivono sottoterra ed escono raramente e solo di notte, essendo disturbate dalla luce del sole. La regina delle formiche mi faceva sapere che alcuni ragni sotterranei le avevano raccontato che dei militari USAensi stavano facendo delle strane cose sottoterra. La regina dunque inviò degli osservatori che le confermarono quanto raccontato dai ragni.
A parte i particolari delle strade sotterranee tutte illuminate e percorse dai vostri mezzi militari (alcuni militari stranamente sembravano vestiti come astronauti) e di strutture e porte metalliche molto particolari di cui non starò a dire. Deve sapere che la luce è disturbante per quel tipo di formiche; ma sono in grado di adattarsi, se fosse necessario, in miliardesimi di secondo. Quello che attirò, invece, la mia attenzione nel racconto era una strana apparecchiatura che poteva essere identificata come un trasferitore stellare; quello che nella lingua dei barbari (mi scusi signor generale, ma mi permetto di dirlo perché nel suo paese finalmente si comincia a dare importanza al latino e al greco) viene chiamato, impropriamente Star Gate.
La regina mi faceva anche sapere che gli antichi uomini conoscevano bene questa modalità di spostamento; ma sapevano anche che poteva essere utilizzata solo da una struttura umana psicogenetica non ordinaria ed armonizzata con la naturalità universale. Infatti il termine Janua Coeli (che nella religione cattolica è per esempio un appellativo della Vergine Maria che viene chiamata appunto La Porta del Cielo), per i multimillenari antichi, (che parlavano latino e greco) si riferiva proprio ad un sistema gemellare o anche pluri gemellare (vedi il Giano bifronte una divinità italica che era il nume tutelare degli attraversamenti di portali; le porte del tempio a lui dedicato erano aperte solo in tempo di guerra) che non è dunque singolare è plurale “Le Porte dei Cieli”, reciprocamente partenza ed arrivo. Che state combinando là sotto, e non solo là sotto, signor generale, Le dico sorridendo…
Adesso posso continuare a porle il resto delle domande profittando della sua pazienza.

Signor generale, la base di Longare è stata assegnata alla 173a brigata che si sta trasformando in un reparto aviotrasportato di paracadutisti, quindi un reparto di pronto intervento. La stessa base (collegata con quella sotterranea del Tormeno?) si sta trasformando in un centro strategico di comunicazione (spazio, cielo, terra) in grado di interagire con i reparti in movimento, con elicotteri e aerei, sistemi missilistici mobili, che possono anche essere dotati di armamenti nucleari tattici, attraverso una connessione militare satellitare. Quindi il costituendo reparto aviotrasportato è in grado di usare dispositivi radiocomandati di nuova concezione?

Può rassicurare la popolazione, residente intorno alla base, che non esistono, all’interno della stessa base o sotto e oltre la stessa base, laboratori di sperimentazione che utilizzano microonde o altri tipi di onde che possano costituire un pericolo per la loro salute?

Signor generale perché sul soffitto di un hangar contenente materiali non di importanza primaria sono stati fissati rotoli di filo spinato? Non sono forse sistemi semplici ma funzionali al disturbo di osservazioni indesiderate provenienti da sistemi satellitari di altre forze armate?

Signor generale, Lei afferma che a Longare non ci sono tunnel; intende forse dire che al di sotto della base di Longare non ci sono sotterranei? Forse non risulta anche a Lei, come agli abitanti di Longare, che l’area dove è stata costruita la base è un terreno di tipo carsico e quindi pieno di cunicoli e di caverne? Forse non risulta anche a lei che proprio l’area sotterranea all’interno della collina (e oltre) raggiungibile dalla base raggiunge l’estensione di 50mila mq?

Signor generale Lei dal 2006 è comandante della Setaf – (Southern European Task Force – forza tattica del sud Europa) il cui comando si trova proprio presso la Caserma Ederle – e presto (nell’aprile 2008) lascerà l’Italia per l’Iraq; per quale motivo ritiene, a causa della brevità temporale del suo incarico, di poter essere esonerato dal ricevere domande relative al passato ultradecennale di questa base? Come pensa che potrebbero reagire i giornalisti del suo Paese se il Presidente degli Stati Uniti appena eletto informasse i deputati del Congresso nel suo discorso di investitura che non avrebbe accettato domande riguardanti avvenimenti relativi al periodo precedente la sua elezione a Presidente, dichiarando di non avere né titolo né competenza per rispondere?

Signor generale, può davvero rassicurare la popolazione di Longare che la chiusura della base, oggi assegnata alla 173a brigata, portata a termine nel periodo tra la fine di marzo e la metà di maggio del 1992, non sia stata motivata da una rilevazione di radioattività a seguito della quale venne cementificata una galleria nei sotterranei al di sotto della base di Longare, come venne riportato dalla stampa locale?

Signor generale, quando questo articolo sarà pubblicato, nella seconda metà del 2008, Lei si troverà da almeno 5 mesi in Iraq ad assolvere le funzioni del suo nuovo compito (con una stelletta in più); sarà al comando del Multi National Security Transition Command. Un compito delicato gestire il trasferimento progressivo dei poteri al governo iracheno in carica. Dovrà affrontare il difficile compito di mettere d’accordo Sunniti e Sciiti e ce ne vorrà di pazienza. Al comando della SETAF Le subentrerà il generale William “Bruke” Garrett III. Risponderà Lei a queste domande (come spererei) o le girerà al nuovo comandante generale Garrett che d’altra parte conosce personalmente e ritiene che sia la persona giusta per gestire le questioni di Vicenza?

Ora, tanto per rendere interessante (per me) l’incontro, non me ne vorrà se apro la questione del Dal Molin.
Mi permetta di ritenere che Lei conosca direttamente o attraverso una sintesi predisposta da qualcuno nel suo comando la prima parte di questo articolo che è anche stata tradotta in inglese ed è rintracciabile nel sito delle Edizioni Nexus. Quindi potrò se e quando sarà necessario richiamare sinteticamente quanto è già presente nella prima parte di questo articolo.
Parliamo del Dal Molin.
Il progetto nel quale si inserisce l’area del Dal Molin è presentato nella sua essenzialità sia nella prima pagina di questo scritto sia nella prima parte pubblicata nel febbraio del 2007.
Lei sa che a Vicenza è nato un comitato che vuole impedire che il territorio dell’aeroporto Dal Molin sia destinato all’ampliamento della base militare statunitense a Vicenza secondo la riorganizzazione militare che investe l’intero scacchiere sud europeo.
Lei sa anche che si è costituito un altro comitato, nel quale trovano voce i vicentini che vivono con l’indotto della presenza militare USAense a Vicenza.
L’anno prossimo (l’oggi per allora ci permette di andare e tornare nel tempo) avverrà che il TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) del Veneto determinerà un impedimento normativo inatteso all’inizio dei lavori attuativi del vostro progetto “Vision 2020”.
Sempre l’anno prossimo, per la precisione il 5 ottobre, come deciso dal Consiglio Comunale, si terrà un referendum che chiederà il parere dei vicentini sulla questione della destinazione dell’area Dal Molin.
“Ma non era stato negato dal Consiglio Comunale?”
Giusta domanda signor generale; il fatto è che alle prossime elezioni i cittadini daranno la maggioranza al centro sinistra ed una delle prime decisioni del nuovo consiglio comunale sarà proprio quella di indire un referendum sulla questione dell’utilizzazione dell’area Dal Molin per le nuove esigenze di spazio della base USAense della Ederle. Le anticipo il quesito referendario che l’Amministrazione ha intenzione di proporre ai cittadini vicentini.

È lei favorevole alla adozione da parte del consiglio comunale di Vicenza, nella sua funzione di organo di indirizzo politico amministrativo, di una deliberazione per l’avvio del procedimento di acquisizione al patrimonio comunale, previa sdemanializzazione, dell’area aeroportuale “Dal Molin” – ove è prevista la realizzazione di una base militare statunitense – da destinare ad usi di interesse collettivo?

Il comitato del sì farà ricorso anche lui al TAR; perché il referendum sia annullato, essendo inutile in quanto non potrà impedire gli atti già definitivi relativi ai lavori che avranno comunque inizio nell’area Dal Molin, configurandosi inoltre come un danno al patrimonio comunale. Poiché il TAR riterrà non accoglibile il ricorso, il comitato si rivolgerà (anche lui) al Consiglio di Stato. Ma pur essendo il ricorso troppo a ridosso della data referendaria per la quale il comune avrà già predisposto tutti gli atti burocratici necessari, il Consiglio di Stato lo accoglierà il 1 ottobre 2008. Quindi niente referendum? No signor generale, vuole che dopo tutti gli impegni con i cittadini che sono stati legittimamente presi, il sindaco di Vicenza rinuncerà all’unica parvenza di democrazia in questa città, nel mirino mediatico già da troppo tempo?
Il referendum si farà sia pure autogestito, nel senso che non potranno essere utilizzate le strutture comunali a causa dell’annullamento del Consiglio di Stato. Utilizzando un gran numero di gazebo e più di un centinaio di volontari si svolgerà lo stesso un referendum che non avrebbe dovuto essere annullato. Annullarlo è stato come colpire una persona già ferita. Non ha dato molto onore al Consiglio di Stato.
Capisco che non Le sto dando una buona notizia riguardante i futuri rapporti fra il militari USAensi e i cittadini vicentini. Lo stesso nuovo Presidente del Consiglio (Silvio Berlusconi) invierà una lettera al Sindaco di Vicenza perché il referendum sia annullato in quanto “gravemente inopportuno”. L’intenzione referendaria sarebbe quella di sottrarre l’area al demanio dell’Aeronautica Militare Italiana ed acquisirla fra le aree del demanio comunale vicentino; ma non siamo certi che di fronte ad un “sì” referendario della maggioranza della gente vicentina che potesse votare, i potenti che governano riterranno di sentirsi in obbligo di fare un passo indietro.
Vede come è facile scrivere del futuro parlando dal futuro? Lo so che penserà che certi documenti antichi presentati come scritti nel passato in realtà erano stati semplicemente antedatati; ma mica c’è bisogno di spiegarlo a tutti. Si sa che, se l’obiettivo è il controllo delle genti, la favolistica è una ottima autostrada (sotterranea, che arriva dritta dove si vuole, superando anche rilievi molto montuosi – ci passa sotto – non pensi male non voglio accennare alla ormai dimessa superficiale Pluto di Longare).

Questi italiani, anche se di sinistra, sono sempre bizantini. Che cosa si andranno ad inventare l’anno prossimo? Visto che il Governo, come si premurerà di comunicarLe l’ambasciatore Spogli nei giorni prossimi, vi darà il via libera, il Codacons (coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e la tutela dei diritti di utenti e consumatori) farà ricorso al TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) perché vengano sospesi i lavori di ampliamento previsti sull’area Dal Molin. Il TAR, il 18 giugno 2008, accoglierà la richiesta di sospensiva, trattando la questione sotto il semplice profilo amministrativo; rilevando la mancanza di documentazione autorizzativa e quindi considerando formalmente illegittimo il progetto riguardante l’ampliamento Ederle2; non solo ma ulteriormente valuterà che il progetto stesso implementerà eccessivamente l’inquinamento da traffico intorno all’area Dal Molin; porrà l’attenzione sul rischio di danneggiamento e alterazione delle falde acquifere; rileverà la mancata consultazione popolare (che ormai Lei già oggi sa che sarà fissata per domenica 5 ottobre 2008).
Naturalmente il Ministero della Difesa informato del decreto sospensivo del TAR del Veneto, ricorrerà al Consiglio di Stato.
Sull’onda della sospensiva del TAR, c’è chi converrà che la mossa sia azzeccata e qualcuno addirittura spererà che gli USAensi non ritenendosi in grado di combattere contro il ferocissimo gigante italiano, il generale burocratosauro, valuteranno l’abbandono di Vicenza nei loro piani riorganizzativi del sud Europa. Brindisi, battimani, soddisfazione per la furba trovata del Codacons; ma il Consiglio di Stato accoglierà il prontissimo ricorso, contro la sospensiva del TAR veneto, della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero della Difesa. Con quale motivazione? Ma è un motivo solare! : “Il consenso prestato dal governo italiano all’ampliamento dell’insediamento militare americano all’interno dell’Aeroporto Dal Molin è un atto politico, come tale insindacabile dal giudice amministrativo”. Non solo; dal Consiglio di Stato giunge altra acqua fredda a spegnere il piccolo fuoco appiccato usando carte amministrative: la consultazione popolare fra i cittadini di Vicenza (quella del 5 ottobre 2008), qualunque sia il suo esito, non avrà nessun effetto sull’attuazione dell’ampliamento della base. Amen. Finiti i brindisi, i battimani e gli elogi delle furbate bizantine, prese per elevate vette del sottile gioco della grande politica.
Eppure le informazioni sono state precise e non equivocabili.
Per esempio, quando il ministro degli esteri Massimo D’Alema incontrò il segretario di Stato USAense Condoleeza Rice, alla fine del mese di gennaio 2007, a Bruxelles ha ricevuto i ringraziamenti del Segretario di Stato.
Il Giornale di Vicenza di quel sabato 27 gennaio 2007 riportò due frasi chiave di quell’incontro.
“Caro Massimo, grazie per il Dal Molin”.
“Cara Condy, ora mantenete le promesse”.
Quel “grazie” del Segretario di Stato USAense ha un peso che meraviglia come sarà sottovalutato dagli strateghi del “no”. Dobbiamo approfondire invece, signor generale, quel “ora mantenete le promesse”. Bene sempre nello stesso articolo, di quel trascorso gennaio 2007, sopra menzionato ecco approfondito il significato della frase: “Per quanto riguarda la base vicentina, ho raccomandato agli Stati Uniti, nella definizione di un progetto concreto, di tenere conto anche delle preoccupazioni da parte della popolazione di Vicenza per quanto riguarda l’impatto urbanistico e ambientale della base”.
Il Ministro degli Esteri, a futura memoria, non poteva essere più chiaro e il Codacons, sempre a futura memoria, non poteva che prendere, bizantinamente, la palla al balzo.
Signor generale, quando Lei lunedì 28 aprile 2008 saluterà i soldati della base di Vicenza per raggiungere la sua nuova destinazione in Iraq (dove è già stato, e dove è stato direttamente coinvolto in operazioni belliche), si saranno appena svolte le elezioni comunali della sua Vicenza. Ebbene come Le ho già accennato le elezioni saranno vinte dal centro sinistra. Il nuovo sindaco, dopo il ballottaggio, sarà Achille Variati, candidato del Partito Democratico (il sindaco che porterà al voto referendario i vicentini il 5 ottobre 2008 e Lei da 5 mesi sarà già in Irak). Lei sorride perché ha già capito che la differenza al ballottaggio (500 voti) la farà proprio la Lista Civica “Vicenza libera” organizzata nell’ambito del presidio permanente No Dal Molin (tremila voti, un consigliere comunale eletto).
Comunque c’è da dire che il nuovo comandante si mostrerà cordiale e alla mano. Infatti fra poco meno di un anno da oggi, il 19 maggio 2008, il generale William Garrett incontrerà, nella sua veste di nuovo comandante SETAF a Vicenza il neoeletto sindaco Achille Variati e nell’occasione (mentre nello sfondo sembrerà di vederLa sorridente mentre dice al giornalista Marino Smiderle che La intervisterà il 18 aprile del 2008: “E poi, lasciatemi dire una cosa, io conosco bene Garrett e posso dire che non poteva capitare a Vicenza una persona migliore,” (http://www.marinosmiderle.com/2008/04/good-bye-and-good-luck.html) verrà sottolineato il buon rapporto che i militari USAensi hanno sempre cercato di avere con i cittadini vicentini.
Signor generale, il 12 marzo 2006, prima che Lei assumesse il comando della Setaf e si stabilisse a Vicenza, in Giappone, esattamente nella città di Iwakuni, si svolgeva un referendum consultivo (concesso dal governo). Il referendum, (a differenza di quello vicentino che si limiterà a chiedere ai cittadini se l’area demaniale militare dell’aeroporto Dal Molin, ormai già concessa alla Setaf, debba invece essere tolta ai militari e utilizzata a fini civili di interesse comunale), chiedeva ai cittadini di Iwakuni se approvavano il rafforzamento delle basi USA nel loro territorio. Quasi il 60% degli aventi diritto si presentò ai seggi; 43.433 cittadini votarono “no”, 5.369 votarono “si”. A Vicenza, invece, i cittadini che non vorrebbero darvi la base dovranno votare “si”. Il risultato referendario vicentino, purtroppo per i vicentini, potrà avere solo una utilizzazione politica: discussioni e interpretazioni su quanti saranno andati a votare, su quanti avranno votato “si”, su quanti avranno votato “no”. Ma la decisione politica (obbligata, come in Giappone, da una occupazione militare degli Stati Uniti d’America che ormai ha superato il mezzo secolo) è già stata presa. La base Ederle2 sarà costruita. Le autorità militari USAensi si sono solo impegnate a definire un accettabile impatto ambientale e cercare di curare un buon rapporto con la popolazione vicentina.
Infatti, signor generale, il Commissario di governo Paolo Costa annuncerà in una conferenza stampa che si terrà il 30 settembre 2008 nella Prefettura di Vicenza che l’area dell’aeroporto Tommaso Dal Molin verrà ceduta dall’Aeronautica militare all’esercito e quindi consegnata al comandante militare italiano della base di Vicenza il quale provvederà a renderla disponibile per le esigenze ampliative dell’esercito statunitense. L’area, non è previsto, per ora, che diventi territorio USA. Il commissario Costa comunque ci terrà a far sapere che tutto sarà fatto nel pieno rispetto dell’ambiente come del resto volevano gli oppositori del progetto.
Non sarà previsto un aeroporto civile. La pista dell’aeroclub vicentino (che non verrà sfrattato) verrà spostata. Questa pista non è previsto che sia utilizzata da aerei militari USA e neanche da aerei commerciali. “un aeroporto civile a Vicenza non ha senso” dirà infatti il commissario Costa.
Di più, come ormai sappiamo avverrà che il Consiglio di Stato accoglierà la richiesta del Comitato Si Dal Molin.
Torniamo a noi, signor generale, tanto vedo che il futuro Le sorride.
Avrà certamente notato, signor generale, in questo raffronto fra Giappone e Italia, che la reazione popolare (ne accenno nella prima parte già pubblicata di questo articolo) è stata molto localizzata. Solo la città di Vicenza è stata in qualche modo coinvolta in una posizione ostacolativa. Se la reazione italiana fosse stata come quella giapponese avrebbe coinvolto l’intero nord Italia. Vede Signor generale che la sinistra italiana alla fine ha il senso della misura, salvo qualche scalmanato che è possibile trovare anche fra i moderati. Se non ci fosse una politica di sinistra in Italia la dovrebbero inventare i vostri strateghi di politica internazionale. Se non ci fossero loro dove trovereste persone ultradecise ad attuare a casa loro la vostra globalizzazione che cammina sul frammischiamento di genti il cui vero scopo è quello di trasformare il multiculturalismo in una unica cultura, sterile e senza radici, facile da controllare. Una operazione sottile e diabolica, senza costi, addirittura pagano di tasca loro, vendendo le poche cose che hanno, le genti disperate che se ne vengono a milioni in Europa alimentando i serbatoi dei clandestini di cui hanno bisogno gli sfruttatori senza anima per arricchirsi sempre di più su generazioni sempre meno libere e sempre più schiavizzate. Sulla buona volontà dei comprensivi si costruisce l’idea della inevitabilità di una società multiculturale e multietnica. “Siamo costretti a convivere” è la frase chiave insegnata ai nuovi arrivati. Nel nostro Paese dove ormai neanche più un marito e una moglie, anche se hanno figli, si sentono costretti a convivere, e decidono di dividere i loro destini, si vorrebbe che invece popoli di culture, etnie e religioni diverse si sentissero invece costretti a convivere. Non viene il dubbio che qualcuno stia cercando di appiccare un incendio sociale fuori controllo? Eppure, sentiamo dire da rappresentanti di questa sinistra, alla fine bonacciona in questo arrendimento stupefacente, che gli italiani si debbono rassegnare ad essere in un futuro prossimo una minoranza di nativi, di autoctoni fra milioni di genti altre (e di altra religione) che occuperanno le terre che furono dei loro avi.
“Ci dobbiamo rassegnare, non possiamo evitare che milioni di persone vengano a stabilirsi nel nostro Paese”, “Abbiamo bisogno di loro”, “Non possiamo evitare che le imprese italiane si spostino nei Paesi dove la mano d’opera costa meno, è il mercato che decide tutto questo, bellezza”, “Se vuoi lavorare, devi rubare il lavoro di un altro facendoti pagare di meno” sono solo alcune delle frasi che come pietre angolari vorrebbero costruire un nuovo e duraturo tempio blasfemico al profitto; e il viale principale (senza alberi) che conduce al tempio del profitto può anche avere diramazioni dipartentesi da destra, o da sinistra che sembrano andare altrove ma a quel tempio conducono. Del resto non accade così anche nel suo Paese, signor generale, dove i nativi ormai numericamente più che minoritari, sono quelli che venivano chiamati Pellerossa (ma ora non più perché il termine è ritenuto offensivo)?
Dunque, signor generale, vede come sono utili e funzionali i buoni di questo Paese ai piani di controllo globale che si delineano con sempre più chiarezza nelle fondamenta della globalizzazione che servono a sostenere i progetti espansivi e rigidamente normativi ed extranazionali del WTO?
Ma avrò modo di esporLe meglio la questione quando verranno trattati altri eventi. Torniamo pure alla questione vicentina.
Poiché in questo periodo avviene che negli Stati Uniti gli studenti universitari che frequentano corsi di greco e di latino sono aumentati del 30% (e questo già dai primi anni ‘90), mi arrischio, signor generale ad accennare ad una favola greca in cui si racconta di una guerra scoppiata fra le rane e i topi: La BATRACOMIOMACHIA. “Batracos” significa rana, “mus” significa topo e “machìa” significa battaglia.
È un piccolo poema greco, anticamente attribuito allo stesso Omero, che prende in giro l’Iliade omerica. I critici moderni ipotizzano che il poemetto possa essere datato fra il 5° e il 3° secolo Avanti Cristo. Una favola per piccolini, signor generale, nella quale molti grandi potrebbero trovare di che riflettere.
La trama del racconto? Eccola.
Rubabriciole così si chiama il topino che, sul dorso della rana Gonfiagote, ha scroccato l’attraversamento di uno stagno. La rana, spaventata da una biscia che le passa accanto, si immerge e il povero topino annega.
Un evento drammatico e compassionevole; ma ci sono delle complicazioni. Infatti Gonfiagote è il re delle rane e Rubabriciole è il nipote ed unico erede al trono del re dei topi. I topi dichiarano guerra alle rane accusando il loro re di aver volutamente provocato la morte dell’erede al trono dei topi. Le rane stanno per soccombere sotto l’attacco dei topi. I granchi, che fino a quel momento sono stati a guardare, intervengono in forze dichiarando di voler riportare la pace fra i due contendenti. I granchi occupano i territori dei topi e delle rane, li sottomettono e li riducono in schiavitù.
Perché questo richiamo a questa favola antica? Perché non ha importanza chi rappresentino i topi o le rane, se il comitato del sì all’ampliamento (quelli i cui rappresentanti Lei ha più volte incontrato), o il comitato del no all’ampliamento (quelli che si oppongono all’utilizzazione militare dell’area Dal Molin); la vera importanza è sapere chi sono i granchi. E forse lo abbiamo capito solo noi, vero signor generale?
Con questi granchi nello sfondo, potrei permettermi, signor generale, di valutare assieme a Lei alcune questioni di geopolitica connesse ad eventi di riflesso internazionale avvenuti nel passato o che avverranno nel prossimo futuro. Ricordiamo a chi ci legge che La sto intrattenendo, con un lungo monologo in quella stanza del Site Pluto dove ipotizzo che Lei avrebbe accettato di incontrarmi, nella mia qualità di giornalista, curioso e chiacchierone in quel 9 giugno 2007.
Posso cominciare? Non sto nella pelle, mi ha sorriso e mi ha detto di sì, pur, giustamente, facendomi notare che non ha molto tempo a disposizione. E che potrebbe esserci un elicottero che la viene a prendere da un momento all’altro.
Facciamo una visita nel passato del suo Paese. Sono interessato agli avvenimenti relativi alla guerra di secessione. Nel marzo del 1861 sette stati del sud (Lei è texano e guarda caso fra quegli stati c’era il suo Texas) deliberarono la secessione seguiti poi da altri quattro stati che aderirono alla costituita Confederazione degli Stati d’America. Il presidente Lincoln dichiarò illegale la secessione e dopo poco divampò una guerra civile fra i nordisti (gli stati del nord che si riconoscevano nella federazione) e i sudisti (gli stati del sud che si riconoscevano nella confederazione secessionista). L’esercito nordista sconfisse quello sudista, e gli stati secessionisti confederati del sud furono riportati con la forza all’interno dell’Unione federale.
Dunque la federazione degli Stati Uniti d’America considera la secessione di uno stato membro un atto illegale e, conseguentemente, è considerato invece legittimo un intervento militare contrastativo nei confronti di uno stato che deliberasse la secessione dalla Federazione. Una posizione precisa, quella statunitense, che, oltre a definire indirettamente la differenza (labile) fra il termine confederazione e il termine federazione, non è sindacabile dall’esterno, tanto più per le cicatrici che quella guerra civile ha comunque lasciato nel tessuto civile del Paese nordamericano. Da rilevare la struttura istituzionale del suo Paese signor generale. Ogni singolo stato ha nella Camera dei Rappresentanti un numero di seggi proporzionale alla sua popolazione.
Al Senato invece ogni singolo Stato ha lo stesso numero di rappresentanti; ma il Senato ha un peso maggiore della Camera sulle questioni di competenza federale.
Fatta questa non secondaria riflessione ultrasintetica sulle istituzioni fondamentali degli USA; tenendo presente lo sfondo di quella guerra civile provocata dalla dichiarazione di secessione di alcuni stati membri dell’Unione nella seconda metà dell’ottocento e dell’appoggio che la spinta secessionista ricevette dai Paesi europei (in prima fila l’Inghilterra), prendiamo visione, signor generale, degli avvenimenti che sconvolsero la legittima Repubblica Federale degli Slavi del Sud (che è il significato del termine Jugoslavia), dopo il dissolvimento della Federazione dell’Unione Sovietica.
Il suo Paese, signor generale, fu in prima fila nella fortissima pressione diplomatica verso gli stati membri della Repubblica Jugoslava perché giungessero ad una dichiarazione di secessione e di indipendenza che il legittimo governo federale di Belgrado capitale della Federazione e capoluogo della Serbia voleva scoraggiare ed impedire; esattamente come il legittimo governo USAense di Washington (in quel 1861) voleva scoraggiare e impedire analoghe dichiarazioni di secessione e di indipendenza degli Stati del sud.
Quando la Slovenia – dopo aver modificato la propria costituzione inserendovi il diritto di secessione (1989) e dopo aver registrato che l’88,2% dei cittadini chiamati a referendum (23 dicembre 1990) volevano rendersi autonomi dal resto della Repubblica federale – il 25 giugno 1991 dichiarò la propria indipendenza violò la costituzione della Repubblica di cui faceva parte.
Quando la Croazia – dopo aver modificato la propria costituzione inserendovi il diritto di secessione (il 22 dicembre 1990) e dopo aver registrato che il 94% dei cittadini chiamati a referendum (15 maggio 1991) volevano rendersi autonomi dal resto della Repubblica federale – il 25 giugno 1991 dichiarò la propria indipendenza violò la costituzione della Repubblica di cui faceva parte (scatenando la guerra civile contro la maggioranza dei serbi della provincia croata della Krajina).

Ha notato signor generale la fotocopia delle iniziative secessioniste slovene e croate? Ne sa qualcosa, generale, il suo Paese di questo copia/incolla?

E vorrebbe arrischiarsi con me, visto il passato secessionista del suo Texas, a considerare che il conseguente intervento dell’esercito federale jugoslavo, secondo il diritto internazionale (sia in Slovenia che in Croazia), era certamente da considerarsi legittimo? Non ritiene, invece, sia pure sottovoce, (ma potrebbe anche non essere concorde naturalmente) che fu invece l’intervento degli Stati europei (gestiti dalla regia diplomatica del suo Paese), signor generale, che, di fatto, violò il diritto internazionale quando costrinse, con pressioni di ogni tipo, l’esercito jugoslavo a lasciare la Slovenia.
Le truppe federali ancora fedeli alla costituzione repubblicana cercarono di impedire la disintegrazione della Repubblica; ma l’interferenza esterna fu decisiva perché la disintegrazione divenisse irreversibile. Infatti le (cosiddette, perché non si sa per quanto) potenze occidentali protestarono per le iniziative di autodifesa istituzionale; iniziative che qualunque altra Repubblica federale avrebbe assunto se si fosse trovata a fronteggiare quegli stessi eventi (si ricordi delle truppe nordiste in movimento verso lo Stato di cui è originario che si trovava fra gli stati secessionisti del sud nel 1861, signor generale). Il suo Paese, invece, dimentico del suo passato, fu il supervisore nel riconoscimento dell’indipendenza della Slovenia, della Croazia quel 15 gennaio 1992 sotto la singolare pressione diplomatica della Germania, dell’Austria e (strano? O per la cattolica Croazia?) del Vaticano.

A chi, nel futuro, verrà attribuita la responsabilità di aver scatenato una guerra civile fra i Croati (appoggiati dai paesi filosecessionisti) e i Serbi (appoggiati solo dall’ancora legittimo esercito federale), signor generale?

Perché non venne riconosciuta dall’occhiuta Europa, in quel 15 gennaio 1992 anche l’indipendenza della Serba Krajina (che l’aveva proclamata nel dicembre del 1991)?
Perché, invece, giunsero le forze di interposizione dell’ONU?
A chi, nel futuro verrà attribuita la responsabilità di quel (primo) mezzo milione di cittadini serbi (cristiani ortodossi) costretti con la forza a lasciare la Krajina e a rifugiarsi in Serbia dalle (assistite) truppe Croate (cattoliche), nonostante la presenza delle truppe dell’ONU?

Perché i cattolici croati non hanno messo in atto il principio della fraterna cristiana accoglienza nei confronti del mezzo milione di cristiani ortodossi serbi?
Dobbiamo forse essere costretti a rilevare che i cattolici preferiscano essere accoglienti con gli islamici piuttosto che con i cristiani ortodossi?
E se la rilevazione, anche se ci disturbasse, si rivelasse vera dovremmo forse essere costretti a studiare con più attenzione il contesto storico della nascita della Chiesa Cattolica?
Fatto sta che proprio fra cattolici e cristiani ortodossi prese inizio il lungo elenco delle drammatiche pulizie etniche (sempre sotto la super visione delle truppe del suo Paese e dell’ONU); un lungo calvario di distruzione di sofferenze e di morte, non ancora finito, che ha segnato la memoria di popolazioni inermi in fuga, incastrate nell’uno e nell’altro artificioso fronte in quella povera, disperata, divisa, terra degli Slavi del sud.
E dopo questa “grande” operazione, vanto delle cancellerie occidentali, qualcuno si sarebbe arrischiato a mettere in dubbio che anche la Bosnia-Herzegovina, dove convivevano musulmani, cattolici (croati) e cristiani ortodossi (serbi), sarebbe stata spinta sulla facile discesa della secessione?
L’aggressione esterna non era finita. Anche la Bosnia si ritrovò in casa la guerra civile, provocando un bagno di sangue aggravato da motivazioni religiose.
Anche la Macedonia (allarmando la Grecia che non ammette che quel Paese assuma il nome che appartiene alla sua storia millenaria) fu incoraggiata a seguire la stessa strada secessionista.
Di più, qualcuno avrebbe potuto ipotizzare che l’ONU garante del diritto internazionale (con la perfetta visione attraversante i vetri – molto opachi – del palazzo di vetro delle Nazioni Unite a New York, una grande città della Federazione USA) avrebbe avuto qualche ritrosia ad ammettere nel grande consesso delle Nazioni Unite le secessioniste autoproclamatesi repubbliche della legittima Repubblica Federale Jugoslava che secondo il diritto internazionale avrebbe dovuto essere considerata uno stato sovrano?
La Serbia si trovò, prima col Montenegro, poi da sola a rappresentare quello che restava di una Repubblica federale che era la capofila dei Paesi non allineati, cioè non difendibili come quelli allineati. Una Repubblica che era il contenitore dell’intestino-crogiuolo o, se si vuole prendere insegnamento dal passato, del ventre molle d’Europa ormai lasciato allo scoperto.

Povera Europa con il ventre squarciato e gli intestini penzolanti e sanguinanti che ancora pensa di stare in buona salute.

Ma non è finita: bisogna rimpicciolirla questa Serbia e allora perché non spingere il Kosovo all’indipendenza e strapparlo all’integrità territoriale della Serbia, e nello stesso tempo perché non solleticare l’Albania con il miraggio di un Kosovo prima indipendente e poi albanese per costruire la Grande Albania (magari aggiungendo al territorio dell’Albania oltre al Kosovo anche le aree a maggioranza albanese – grazie anche all’alto tasso di natalità – della già secessionista Macedonia come era già avvenuto con la protezione dell’esercito tedesco della Germania di Hitler dopo l’8 settembre del 1943?).
E a questo proposito signor generale (che continua paziente ad ascoltarmi in attesa che un elicottero La venga a prendere), le ovazioni e il bagno di folla (corredate dal furto pubblico del suo orologio, se per caso qualcuno stesse perdendo il contatto con la realtà balcanica) che attenderanno il Presidente Bush domani (domenica 10 giugno) a Tirana, potrebbero rivelare questo ammiccamento miraggistico?
Il tasso di natalità diviene un problema politico se la crescita demografica del Kosovo, insieme a quello dell’Albania, è, attualmente, il più alto dell’area europea. Una famiglia kosovara o albanese è composta dalle sei alle nove persone. Bisogna risalire a prima dell’ultimo conflitto (cosiddetto) mondiale per registrare in Italia una analoga o superiore crescita demografica. Se in Kosovo si è registrata nella seconda metà degli anni ‘80 una crescita demografica del 23,4% e se aggiungiamo che la maggioranza della popolazione è di religione islamica (il 70%, retaggio della dominazione ottomana durata quasi mezzo millennio a partire dal 15° secolo), che il 10% della popolazione è di religione cristiana ortodossa, che circa il 5% è di religione cattolica, si può comprendere perché la questione religiosa, come nel resto dei paesi ex jugoslavi, si pone drammaticamente fra i principali motivi di difficoltà di integrazione.

La differente cultura religiosa nel tessuto sociale di una popolazione, se stimolata da ben addestrati interferitori esterni, si trasforma prima in un subdolo, strisciante ma potentissimo mezzo di differenziazione, poi in un perfetto divaricatore sociale, quindi, raggiungendo lo scopo prefissato dei mandanti, in una furiosa, feroce inarrestabile guerra di religione che non si fermi neanche di fronte al genocidio.

Gli eserciti europei che hanno aiutato l’esercito USA a smembrare la Jugoslavia appena potranno (se non rimarranno impantanati da impreviste e improvvise sabbie mobili) se ne andranno, mentre le basi militari che il suo Paese signor generale ha piazzato nei territori della ex Jugoslavia (come ormai è chiamato il fantasma della federazione degli slavi del sud) sono già propaggini strategiche dei piani USA di dominio militare del territorio europeo. La sua Setaf, signor generale.
Il prezzo di sangue che è costato l’indotto smembramento della federazione jugoslava pesa sui governi che l’hanno perseguita con freddo cinismo. Purtroppo lo squarcio al ventre molle dei Balcani non ha ancora prodotto i suoi effetti più nefasti. Le interferenze che hanno portato alla distruzione della federazione jugoslava, oltre ad aver creato un pericolosissimo precedente, si configurano, nell’ambito del diritto internazionale, come aperte violazioni della sovranità di uno Stato a cui è stato impedito di difendere come avrebbe voluto l’integrità del suo territorio contrastando secessioni ed interventi stranieri nei suoi affari interni.

La legittimità della difesa dell’integrità territoriale di un paese dipende dagli umori militari geostrategici degli Stati Uniti d’America signor generale?

E poi come la mettiamo con il multiculturalismo, la multietnia, la multireligosità che sta a fondamento della società globalizzata ultramoderna promessa alle nuove generazioni.

Non è forse vero che la Repubblica Federale degli Slavi del sud era, sottolineo proprio per le nuove generazioni, era una società multietnica, multiculturale e multireligiosa; qui dunque la globalizzazione se fosse stato un progetto umano, e non umanoide, avrebbe potuto dimostrare la sua capacità coesiva delle differenze fra i popoli finalmente convinti, e non costretti, a convivere; invece non è forse vero che proprio facendo leva sulle differenze culturali, etniche e religiose fra i diversi popoli è stato facilissimo sfasciarla piuttosto che tenerla unita?

Avrà certo compreso, signor generale, Lei che è avvezzo alle strategie geopolitiche, che questo accenno alla ex Jugoslavia prepari un attraversamento dell’Adriatico verso il Paese al di là dello stretto mare; infatti, questa osservazione ci porta alla questione della mutazione in atto del tessuto sociale italiano. Mi perdoni se mi arrischio a dilungarmi su alcune questioni che ritengo comunque potrebbero interessarLe; cercherò di entrare nelle viscere del termine “globalizzazione” un termine che non dovrebbe lasciarLa indifferente.
L’arrivo forzato di nuove genti, in Italia, è iniziato mentre le piazze si riempivano di giovani che pretendevano di piegare i diritti alle loro necessità. La libertà di organizzare la propria vita e di viverla senza essere costretti a condividerla con i doveri di una società ormai vecchia ed incapace di affrontare il nuovo che loro invece incarnavano nei loro corpi giovani. Gli operai che spingevano il sindacato a pretendere che i salari fossero in grado di sostenere le necessità di una vita che cominciava a tecnologizzarsi; che le condizioni del lavoro e gli orari di lavoro fossero liberati dallo sfruttamento, che le pensioni fossero adeguate e dignitose.
Finalmente il sindacato conta in questo Paese pensavano rassicurati i lavoratori; ma non sapevano che sarebbe durato solo tre decenni, poi il signor Mercato, così rispettato dall’attuale sinistra politica di questo paese (la produttività ragazzi, la produttività), si sarebbe ripreso tutto e anche di più…
L’arrivo dei primi emigrati si cominciò a vedere in alcune parrocchie e in alcuni istituti religiosi. Forse si riteneva che l’accoglienza avrebbe portato queste persone, di religione islamica, che cercavano di migliorare la loro vita, a convertirsi al cattolicesimo. Non fu così. Quando divenne chiaro che non sarebbe stato né facile né automatico convertire questi primi drappelli di immigrati; allora le chiese e gli istituti religiosi non furono più il loro punto di approdo. Gli immigrati cominciarono a raccogliersi dove potevano; solitamente in luoghi o fabbricati abbandonati.
Il problema è stabilire per quale motivo ci raccontino, dopo quarant’anni di flussi migratori in aumento esponenziale che l’arrivo massiccio di genti (sono ormai milioni) non sia frenabile, anzi ci raccontano che è ormai un fenomeno strutturale alla società ormai inevitabilmente in via di globalizzazione. (Ma ci sarà cibo sufficiente per tutti, non verrà messa a dura prova l’autonomia agricola del nostro Paese?)
Come invece non registrare la blanda opposizione, anche burocratica ed istituzionale, ad un flusso migratorio clandestino che, come cane che si morde la coda, ci viene presentato come fenomeno autonomo endemico, strutturale, inevitabile (e non indotto e provocato e funzionale allo sfruttamento globale di gruppi nemici dell’umanità). Basta vedere cosa accade nei centri di raccolta dei cosiddetti clandestini, cosiddetti perché è una strana clandestinità quella che ci viene presentata; è semplicemente una finzione semantica – ormai i lor signori di allora (che oggi sono tranquillamente frammischiati con i cosiddetti imprenditori di sinistra), vorrebbero che ci abituassimo all’uso significante improprio dei termini (i nomadi, appena arrivano, hanno i mattoni al seguito per costruirsi una casa, come che sia e dove che sia, e noi non sappiamo più chi siano veramente, a questo punto, i veri nomadi) – tanto è vero che dopo la permanenza nei centri di raccolta, dove dovrebbero almeno essere identificati ed identificabili, se ne possono tranquillamente andare dove vogliono; se poi, come ormai sta avvenendo, non si venga a scoprire che questi disperati nel timore di essere rimpatriati e quindi nel timore di aver speso inutilmente la gran somma di denaro che è stata loro richiesta per raggiungere il paradiso terrestre, hanno accettato di farsi bruciare i polpastrelli delle dita perché non possano essere loro prese le impronte digitali. Ma, avendo ben presente i drammi che ci vengono sbattuti in faccia tutti giorni da criminali senza dignità umana, il massimo della prova della finzione pubblica è quando si dibatte pubblicamente sul diritto o meno dei clandestini di mandare i figli a scuola o negli asili, o nelle scuole materne.

Ammetterà, signor generale, che in Italia, soprattutto in Italia, da più di tre decenni stiamo assistendo ad una incomprensibile trasformazione sociale a tappe forzate con l’immissione forzata di genti diverse quanto a razza, cultura, religione a cui si è aggiunta l’apertura ai paesi dell’Est resa possibile dal fatto che l’Italia è entrata, anche lì a tappe forzate, nella Comunità europea e nell’euro?
Tutto questo potrebbe risultare comprensibile solo se nei piani dei forzatori fosse contemplato lo smembramento del territorio italiano che è riuscito così bene con la dirimpettaia Jugoslavia.
Chi, dunque, sta lavorando per trascinare questo Paese verso una strisciante guerra civile, prima fra poveri, poi fra etnie, poi fra religioni? Possibile che stia sfuggendo, a chi non dovrebbe sfuggire, la gravità di quanto si sta preparando? Possibile che non si riesca a prevedere la militarizzazione della società italiana che sempre più verrà indicata come necessaria, proprio da chi ne pagherà care le conseguenze?

Una veloce occhiata al passato dei Paesi europei, potrebbe aiutarci a dare un più preciso significato alle parole che vengono usate in questi anni in cui si sta attuando un colossale imbroglio ai danni dell’umanità intera.
Dall’Europa giunsero i migliori a civilizzare l’America: avidi depredatori, schiavizzatori, assassini che ebbero buon maligno gioco contro popoli che, a loro differenza, ritenevano fondamentale mantenere la parola data.
Il vergognoso traffico di schiavi africani – verso il (rubato ad altri popoli) nuovo mondo come era chiamato allora l’immenso continente americano, (sul quale lucravano anche schiavisti arabi) – ci riporta direttamente, usando la memoria, alla frase perfida “abbiamo bisogno di loro”. In questa frase il “loro” significa proprio abbiamo bisogno di schiavi (si legge clandestini), di gente che lavori per noi per pochi spiccioli (si legge clandestini legalizzati), per gonfiare i guadagni dei collaborazionisti dei nemici dell’umanità; e anche perché si fa vecchia l’Europa; non ha più bambini l’Europa, e allora li ruba in terre lontane.
Tutti gli africani, anche quelli nati in terre straniere dovrebbero tornarsene in Africa. È l’Africa che ha bisogno degli africani; perché solo loro tutti insieme potranno cacciare una volta per sempre chi li divide e li fa scannare li uni con gli altri, e intanto li deruba di terre e di preziose materie prime; perché torni ad essere quella grande nazione che era molto, molto, tempo fa. Altro che: “L’Africa sarà il prossimo terreno di scontro fra le grandi potenze”.

Non esistono razze superiori. Esistono solo razze che vanno lasciate in pace perché possano crescere secondo i loro lunghissimi tempi senza interferenze (neanche quelle pericolosamente amichevoli e aiutanti). Sarà quel popolo – e solo quando si sentirà pronto – a decidere di incontrarsi con popoli di altre razze che abbiano a loro volta raggiunto il suo stesso livello di evoluzione culturale, sia pure in una armonica differenza. Solo così l’incontro fra culture evolute e fra loro differenti può costituire la base perché tante società insieme possano costruire una durevole civiltà.

Ora comprendiamo perché gli asserviti (speriamo che siano asserviti loro malgrado) governanti ci dicono che l’arrivo di disperati da altri Paesi è ineluttabile. Comprendiamo meno i rappresentanti della Chiesa Cattolica che spingono i fedeli alla cristiana accoglienza mentre, anche da loro, ci arriva l’informazione che non siamo in grado di reagire a quanto si sta verificando.
Addirittura si parla di meticciato culturale.
Non esiste il meticciato culturale; esiste la truffa culturale nei confronti dei poveri del mondo. Il decantato meticciato è figlio ed erede legittimo del colonialismo e delle guerre scatenate per occupare terre di altri popoli la cui cultura (comprendente la loro religione) è stata distrutta e la poltiglia che, informe e irriconoscibile ne è risultata, è stata assimilata a quella degli occupanti (anime di avidi depredatori, schiavizzatori e assassini appunto). Illudere coloro che hanno avuto la cultura frantumata, come si frantuma un vaso di fine cristallo dalla forma inusuale ed unica, che la loro cultura potrà essere ricostruita, sia pure mischiata con altre, è il finale atto di crudeltà (spereremmo almeno involontaria) dell’occupante che ritiene di avere un cuore buono. I mutilati psico-culturali, come vengono chiamati i resti attuali dei popoli violentati vengono curati con protesi psico-culturali che presuppongono la rinuncia all’identità come autodifesa contro l’annientamento. Questi gruppi sono già isolati e ridotti o riducibili nelle cosiddette riserve, cioè in luoghi non economicamente appetibili; ad altri gruppi, che si trovano in aree economicamente appetibili, si rivolgono le organizzazioni criminali cercando di convincerli che, impegnandosi a spendere somme per loro enormi e addirittura indebitandosi, li aiuteranno a raggiungere un Paese lontano dove andranno a stare meglio; ma intanto li stanno cacciando dalla loro terra.
Il termine “meticcio” – e vale anche per coloro che lo adoperano in buona fede – non è un termine da usare a piacimento collegandolo a termini altri. Il meticcio è drammaticamente e storicamente (nello sfondo di una occupazione aggressiva di quelle terre che gli aggressori hanno chiamato america del sud e poi america del nord) l’essere umano che ha avuto l’anima strappata e mischiata (anche geneticamente) violentemente con le anime degli aggressori, che è stato derubato della sua identità, anzi non ha più un posto interiore dove proteggere la sua identità; ed è proprio a causa di questo furto che non decide di lasciarsi morire.
L’identità di ogni essere umano, e non il suo “io”, è incastonata come pietra preziosa dentro il “noi” dell’Umanità.
L’identità di ognuno si trova in punto piccolissimo che occupa uno spazio – questo sì – di frontiera fra il visibile e l’invisibile.
Ogni creatura ha una identità che la definisce e la rende riconoscibile nello spazio e nel tempo. È meglio morire che perdere l’identità, come sapeva San Francesco quando parlava della seconda morte.

È quel “meglio morire” che diveniva il grido cosmico e un tremendo atto di accusa dei nativi, e non solo dei nativi del nord america, che preferivano il suicidio collettivo piuttosto che rinunciare alla loro identità.

Quei popoli ormai mischiati che, attraverso i balli, i suoni e i canti, cercano di tornare in modo collettivo verso la loro identità perduta, fanno da contrasto colpevole alla perfidia dei portatori di egoità, che fingono di essere portatori di umanità, che invece li hanno derubati e li derubano ancora di tutto, anche dell’anima.
L’identità non è il contenitore dell’ego. È l’identità che deve controllare l’ego, la cui funzione è guardare dentro l’individuo. Se l’io non è tenuto sotto controllo tende ad espandersi come ameba maligna intorno all’identità, perché solo imprigionandola può trasformarsi in egoità e prendere a sua volta il controllo dell’individuo negandolo al “noi”. “Nulla ci appartiene così poco come il nostro io” scriveva Sant’Agostino.

Una catena di errori non conduce alla liberazione.

Una catena di errori non costruisce nessuna stupenda convivenza futura, non dobbiamo farci fuorviare.

Una catena di errori costruisce invece l’inferno sulla terra ed è quello che da tempo sta avvenendo.

Alle famiglie italiane viene prospettato un futuro prossimo nel quale il, fino ad ora riconosciuto come identitario, tessuto sociale del Paese sarà completamente irriconoscibile.

L’ondata immigratoria, unita alla elevata pressione demografica che porta con sé, di fatto scardinerà e violenterà il tessuto sociale del Paese.

Stanno forzosamente portando qui, “a carrettate”, e ne porteranno ancora, poveri e disperati che, purtroppo e inevitabilmente, si scontreranno (ma sono visibili i primi segnali) con i poveri e disperati del nostro Paese.

Tutto normale? Tutto logico? Non dovrebbe apparire almeno inaccettabile che genti che vivono in paesi nelle cui viscere c’è la ricchezza siano costrette nelle strette maglie della povertà e costrette ad emigrare?
Davvero qualcuno vorrebbe convincerci che emigrare per necessità da un paese come l’Italia priva di materie prime sia perfettamente equivalente all’emigrare per necessità da un paese ricchissimo di materie prime che i portatori di egoità sono riusciti a riempire di debiti?

Quindi, la globalizzazione, che ha molti più nefasti obiettivi di quelli che dichiara e tutti contro l’umanità (per la ormai incontestabile evidenza che chi ce la sta imponendo non ha intenti né pacifici né solidali), come mai non ha oppositori; non sono forse funzionali ai fini ultimi degli ideatori della globalizzazione le organizzazioni criminali, in grado di muoversi – e dovrebbe almeno suonare strano – su scala planetaria, che cacciano le genti dalle loro terre o/e le spingono a cercar fortuna altrove, un po’ in un continente, un po’ in un altro?
E se invece questa generalizzata movimentazione di popoli, oltre che essere utile agli sfruttatori locali (che questi sì che sono per antonomasia globalizzati, nel senso più degenerato del termine che possiate immaginare), volesse impedire che si guardasse con troppa attenzione all’Africa?

Non è che si stanno svuotando territori, ricchi di materie prime e di suoli (prossimamente) fertili per poterli tranquillamente occupare, recintare e privatizzare?

Non è che, magari, dietro il paravento della globalizzazione, si stanno liberando terre che, si prevede, saranno quelle più utilizzabili dopo una possibile prossima catastrofe planetaria e geoclimatica?

Non sappiamo chi siano questi “loro” che creano questi fatti compiuti a cui tutti, così appare, sembrerebbero costretti ad adeguarsi. I veri, finali, obiettivi del loro gioco ci sono ancora sconosciuti; ma il loro giogo lo abbiamo intorno al collo e ancora non sappiamo, (o forse non abbiamo il coraggio di) dargli un nome.

Per quanto riguarda l’Italia, dobbiamo aggiungere, questa generica impossibilità a reagire non potrebbe ridursi, invece, all’impossibilità di reagire ad una frase del tipo:

“Questa terra è nostra, l’abbiamo conquistata con le armi e la teniamo sotto il controllo non troppo sfacciato delle nostre armi, noi siamo in grado di limitarvi nelle vostre decisioni, quindi siete nostri sudditi; ma siamo, pur sempre, i vostri salvatori, e rimanendo quindi anche i vostri difensori; dovremmo attenderci la vostra gratitudine e non lamentatevi se in questa terra, che appunto è nostra, ci facciamo venire ad abitare chi ci pare, se questo serve ai nostri progetti futuri.”

Questa frase, forse un po’ troppo cruda mentre cerca di sintetizzare imposizioni secretate, mi perdoni signor generale che ancora pazientemente continua ad ascoltarmi (e magari non vede l’ora che arrivi questo elicottero a prenderLa), potrebbe essere attribuibile al governo del suo Paese e motivare, fuori dall’ufficialità diplomatica, la presenza dell’Usaf, e quindi la sua attuale presenza, a Vicenza?

Questa frase non potrebbe richiamare la stessa metodologia che il suo Paese sta seguendo, per esempio, in Iraq (per ora non entriamo nella questione afgana perché lì ancora il ragno non ne vuol sapere di uscire dal buco). Non è anche l’Iraq un “paese liberato” esattamente come l’Italia, come il Giappone, come (per loro fortuna) mezza Germania? Anche lì, come decenni fa da noi, non vi state occupando della “nuova classe dirigente” (non demanderanno questo compito proprio a lei signor generale?) a cui passerete il potere delegato civile (che sono rogne, si sa, ed è meglio lasciarle ai locali). Ma questo povero popolo iracheno (come quello italiano, come quello giapponese, come parte – per sua fortuna – di quello tedesco) non sa che al suo ristrutturato esercito non sarà permesso di avere sotto (vero) controllo il loro Paese che ormai, essendo un paese conquistato con le armi, si deve rassegnare a vivere sotto un protettorato mascherato da (incredibile a dirsi il vostro copia/incolla in certi ambienti molto lontani da questa disastrata Terra) accordi bilaterali segreti?

Questa frase potrebbe aprire gli occhi assonnati e stappare le orecchie assordate, da illusori bizantinismi amministrativi, dei vicentini?

E se così fosse non dovremmo attenderci un po’ di coraggio da parte dei nostri governanti e non solo da loro?
Immagino che voglia prendere appunti signor generale, ma in futuro potrebbe avere il testo completo di questa chiacchierata (quasi un monologo), se vorrà.
Prima di passare ad altro, vorrei farle delle domande a cui non è costretto a rispondere naturalmente. Un mio amico studioso delle cose antiche qualche anno fa mi ha accennato al vero motivo per cui voi non ve ne volete andare via dall’Italia (in realtà, mi perdoni signor generale, credo che, se fosse davvero come mi è stato raccontato, sia invece il motivo per cui avete voluto venirci come conquistatori – utilizzando i traditori posti nelle giuste poltrone del potere istituzionale di allora –  (ma questo lo dirà il prossimo futuro, vostro malgrado).
Pare che l’Italia non sia, secondo questo mio amico studioso che mi ha chiesto di tenere riservato il suo nome, un Paese senza materie prime. Pare che nei tempi molto, molto antichi, quando il mare aveva un livello molto più basso di quello odierno, fosse conosciuta come una terra molto ricca. Pare anche che queste informazioni, sconosciute al mondo scientifico italiano, fossero arrivate ad alcuni vostri studiosi che vi chiesero di appurarle. Cosa che, sempre pare, voi abbiate fatto.
Fatto sta che voi, così mi ha detto questo mio amico studioso che voi siate impegnati da decenni a portare via un minerale molto prezioso dalle miniere raggiungibili solo da cavità sottomarine sia sotto il Lazio che sotto la Sicilia. Per quanto riguarda il Lazio, pare, che voi abbiate ingaggiato con l’esercito tedesco, ai tempi dello sbarco ad Anzio, delle vere e proprie battaglie sotterranee nelle gallerie che si trovano fra il litorale laziale e il monte Cavo.
Sempre secondo questo mio amico, voi ormai siete, da tempo, in grado di raggiungere le profondità del monte Cavo con dei sommergibili e da li sareste in grado di raggiungere dei depositi incredibili di questo minerale molto prezioso. Mentre per la Sicilia bisognerebbe guardare alla sua punta triangolare orientata verso l’Africa.
Ma davvero, signor generale, voi siete in questo Paese per depredarlo di questo minerale sotterraneo che contiene? Io non ci credo; e l’ho anche detto al mio amico. D’altra parte che prove mi ha proposto; solo indirette, indiziarie (per esempio le esplosioni sotterranee che sentono ogni tanto gli abitanti del territorio immediatamente a ridosso delle propaggini montuose del Monte Cavo), nessuna prova concreta, che so fotografica. Questo studioso non mi ha mostrato fotografie che rappresentano militari USAensi mentre caricano casse di questo minerale sui loro sommergibili alla fonda di enormi cavità sotterranee e sottomarine, per essere portato verso destinazioni, che pare non siano i forzieri nazionali del suo Paese. Dunque, per quanto questo studioso (ormai molto, molto anziano) rimanga un mio amico, senza prove, qualche dubbio ho il diritto di averlo. Mi trovo come comprenderà obbligato, essendo un giornalista curioso, ad utilizzare questa circostanza, in cui posso parlare con lei, per chiederLe che cosa mai ci possa essere di vero in queste storie, mai pubblicizzate, che potrebbero trovarsi benissimo, e in modo più proficuo per chi le racconta, nelle pagine di un romanzo.
Ma, tant’è; ne tenga il conto che vuole, non si senta obbligato a rispondermi. Mi permetta, invece, a questo punto, di chiederle se vuole seguirmi nei lontani primi anni ‘40 del ‘900.
Signor generale, l’8 giugno del 1942, l’Europa era coinvolta nell’ennesimo conflitto regionale a cui il suo Paese pensò bene di partecipare, il quotidiano New York Times pubblicò un primo articolo di una serie dedicata ai ‘Churchmen who defy Hitler’“Gli uomini di Chiesa che sfidano Hitler”. Questo primo articolo era dedicato al Vescovo di Münster: Clemens August von Galen che così veniva definito dall’articolista “L’oppositore più ostinato del programma nazionalsocialista anticristiano”. Il vescovo di Münster (era l’undicesimo dei tredici figli del cattolicissimo conte Ferdinand von Galen, in quel marzo del 1878, sta annotando signor generale come il tasso di natalità europeo fosse elevato sia fra i nobili che fra i poveri?). Sa signor generale quale era il motto scelto da von Galen quando fu ordinato Vescovo? Era:
Nec laudibus nec timore: e lui stesso ne spiegherà il significato nella sua prima omelia da vescovo: “Né le lodi né il timore degli uomini mi impediranno di trasmettere la Verità rivelata, di distinguere tra la giustizia e l’ingiustizia, tra le buone e le cattive azioni, né di dare consigli e ammonimenti ogni volta che sarà necessario”. Indifferente dunque alle lodi o alle minacce quando sentiva il dovere morale (è la funzione principe di un Vescovo) di rispondere alle domande provenienti da quella parte di popolo che gli è stata affidata.
Il vescovo von Galen, nel messaggio pasquale del 1934 indirizzato ai fedeli della sua diocesi, tuona contro la dottrina nazista: “Una nuova nefasta dottrina totalitaria […] pone la razza al di sopra della moralità, pone il sangue al di sopra della legge […] ripudia la rivelazione, mira a distruggere le fondamenta del cristianesimo […]. Questo attacco anticristiano che stiamo sperimentando ai nostri giorni supera, in quanto a violenza distruttrice, tutti gli altri di cui abbiamo conoscenza dai tempi più lontani”.
Naturale che il governo tedesco si allarmi e cerchi di screditare il Vescovo presso i suoi fedeli. Ma il popolo tedesco della Westfalia, che in gran parte è cattolico, si stringe intorno al suo Vescovo. Non solo ma lo dimostra pubblicamente partecipando in massa l’8 luglio del 1935 ad una processione che attraversa le strade di Münster.
In più occasioni parlò chiaro dal pulpito:
“Il comportamento della Gestapo danneggia gravemente larghissimi strati della popolazione tedesca… In nome del popolo germanico onesto, in nome della maestà della giustizia, nell’interesse della pace… io alzo la mia voce nella qualità di uomo tedesco, di cittadino onorato, di ministro della religione cattolica, di vescovo cattolico, io grido: esigiamo giustizia!”
Con forza denunciò gli atti infami e i soprusi compiuti dalla Gestapo dei quali era venuto a conoscenza. Anche se temeva per la propria vita: “Nessuno di noi è al sicuro, nemmeno se in coscienza fosse il cittadino più onesto, sicuro di non venire un giorno prelevato dalla propria abitazione, spogliato della propria libertà, rinchiuso nei campi di concentramento della polizia segreta di Stato. Sono cosciente che questo oggi può accadere anche a me…”, ad alta voce prendeva posizione “contro l’iniqua, intollerabile azione che imprigiona i sacerdoti, caccia come selvaggina i nostri religiosi e le nostre care sorelle… che perseguita uomini e donne innocenti…”
E quando parla non si sente solo ma parla a nome di tutti coloro che gli si sono stretti intorno anche a rischio della loro vita:
“Vengono adesso uccisi, barbaramente uccisi degli innocenti indifesi; anche persone di altra razza, di diversa provenienza vengono soppresse… Siamo di fronte a una follia omicida senza eguali… Con gente come questa, con questi assassini che calpestano orgogliosi le nostre vite, non posso più avere comunanza di popolo!”
“Ora noi vediamo e sperimentiamo chiaramente che cosa c’è dietro la nuova dottrina che da anni ci viene imposta: Odio! Odio profondo, come un abisso, nei confronti del cristianesimo, nei confronti del genere umano…”
La notizia che un Vescovo e i fedeli della sua diocesi a rischio della loro vita hanno il coraggio di sfidare il governo tedesco raggiunge le altre nazioni.
Eppure, signor generale, nonostante l’articolo sul New York Times la città di Münster e la sua Cattedrale non verranno risparmiate dai bombardamenti aerei. La città verrà quasi distrutta. Lo stesso Vescovo sì salverà in modo fortunoso. Il Vescovo si trova a Sendenhorst, in quel 31 marzo 1945, mentre entrano vittoriose le truppe anglo-americane. Neanche in questa occasione smette di prendere le difese dei poveri e dei disperati. Von Galen affronta anche le forze di occupazione perché la popolazione non sia abbandonata alla mancanza di cibo mentre tutto viene saccheggiato, come se, non militari, ma orde di barbari fossero entrate in città, come accadeva nei tempi antichi che sembravano superati.
Nel 1946, a guerra finita, Pio XII decise di annoverare fra i Cardinali il vescovo Clemens August von Galen. Mentre il neo Cardinale stava entrando nella Basilica di San Pietro, gli astanti cominciarono a riconoscerlo; prima si sentì un mormorio, poi iniziò un applauso che sembrava non voler finire mai. Si sentì alta la voce, ripetuta poi da un numero infinito di voci, che lo chiamava il leone di Münster, come ormai era conosciuto nel mondo.
Nei campi di concentramento nazisti si trovavano anche preti cattolici e protestanti provenienti dalle diverse città della Germania, a causa delle loro aperte posizioni contro il nazismo pagano.

Lei ritiene, signor generale, che solo per il fatto che le vostre truppe abbiano liberato dalla prigionia ingiusta (è un esempio limite che non vuole mettere in sott’ordine altre confessioni religiose) preti cattolici e preti protestanti, la Chiesa Cattolica e le Chiese cristiane protestanti vi debbano essere grate o vi debbano obbedienza?

Sa, non è una domanda peregrina, visto quanto fino ad ora ho cercato di porre alla Sua attenzione.
Ma soprattutto è una domanda che troverà motivazione nelle valutazioni che Le sto per esporre. Sono valutazioni nelle quali, nel modo più sintetico possibile, cerco di rendere visibile il mio personale pensiero su come sia possibile che si possa basare l’organizzazione di una società sul profitto e sul progetto di ampliarne la diffusione su scala planetaria, chiaramente visibile nella globalizzazione imposta anche con le (vostre) armi.
Pagare è la parola chiave (e come possono saperlo gli umani) che è stata usata come cavallo di troia (nelle loro rispettive lingue espressa) contro tutte le società del passato perché non riuscissero a trasformarsi in civiltà. Dentro la parola “Pagare” c’è una grande, invisibile, cavità. Dentro questa cavità ci sono altre parole. Queste altre parole sono: controllo, menzogna, aggressione, furto, guerra, genocidio, schiavitù, costrizione, truffa, assassinio, indifferenza, invasione, occupazione, ed ogni altra parola (richiamante il fare) che la fantasia umana asservita alla malvagità possa inventarsi.
Ebbene, pagare è ormai la parola chiave della società che sta avviluppando il pianeta promettendo la realizzazione di una società paradisiaca; una parola che viaggia su un treno stupendamente arredato che cammina sui binari della globalizzazione e del WTO (World Trade Organization – organizzazione mondiale del commercio), assistito dall’alto da satelliti militari “protettivi”.
Mi permetta signor generale di spiegare ai lettori che cosa è il WTO.
Quando andate al mercato avete solo una pallida idea di che cosa sia il commercio; perché lo vedete funzionalmente alle vostre necessità di cibo, di vestiario, di attrezzatura tecnologica per la vostra casa, il vostro giardino. Nel commercio troverete incastrate quindi l’agricoltura (solo la differenza fra i prezzi all’origine e al consumo rende appena visibile la speculazione del profitto). Le industrie manifatturiere e meccaniche; ma nel mondo del commercio troverete anche la scuola, l’università, la ricerca scientifica, la sanità, il divertimento, le vacanze. Provate ad andare in giro per il mondo senza un centesimo; difficile vero? Ecco perché non potrebbe esserci Globalizzazione senza il WTO; ecco perché sono due binari inscindibili. Questa organizzazione, nata nel 1995, è la struttura portante dell’ordine Economico Mondiale che ha il compito di eliminare gli ostacoli al commercio mondiale. Il vero significato del WTO è il seguente: “il profitto abbatterà ogni ostacolo e avrà finalmente il controllo totale del Pianeta”. Il WTO è l’ombrello “legale” sotto il quale le società multinazionali possono anche permettersi di non rispettare le leggi dei singoli Paesi. Il WTO è l’ombrello legale sotto il quale le ONG (organizzazioni non governative) possono anche trasformarsi (essendo la lunga mano di Un Paese straniero) in mazze di ferro nascoste in un drappo di velluto per sfasciare i governi considerati non pienamente asservibili, come abbiamo visto in alcuni paesi dell’ex Unione Sovietica; oppure più invisibilmente “orientare”, con “aiuti” molto pelosi e molto “mirati”, il Paese povero e in via di sviluppo o in via di pre-sviluppo. A costituire un “Governo amico” che permetta alle multinazionali di potersi impossessare delle materie prime che il Paese povero, magari, neanche sa di possedere.
 Il WTO è anche l’ombrello “legale” con il quale la finanza mondiale provvede a “produrre profitto”. Nelle nostre università, non solo statali, si fanno meritorie ricerche che si propongono di rendere meno pesante il fardello dell’organizzazione mondiale del profitto che comunque si accetta che gravi sulle spalle dei poveri del mondo. Si sentono e si leggono frasi altisonanti che vorrebbero anche contenere un leggero (per carità) rimprovero, come “finanza socialmente responsabile”. Come se non sapessimo che il profitto, proprio in quanto tale, non presuppone nessuna assunzione di responsabilità, figuriamoci poi di tipo sociale. Proprio in veneto, visto che questa chiacchierata con il generale Helmick è stata provocata dalla questione vicentina, qualcuno potrebbe ricordare chi fra i prelati romani spiegava all’allora Patriarca di Venezia che con le AveMaria non si produceva denaro: Si può vivere in questo mondo senza preoccuparsi del denaro? No, non si può dirigere la Chiesa con le Avemaria”. Ciò che è utile spesso non corrisponde a ciò che è giusto; (vuol dire che, non avendo tutti, singolarmente, tutte le capacità, una persona che – pagandola – fa qualcosa per te, non necessariamente è una buona e giusta persona) questa osservazione, come cartina di tornasole, ci conferma che non stiamo vivendo nella migliore delle società possibili; ma ci invita anche a cercare di colmare questa, a volte, abissale differenza se vogliamo davvero costruire una società che possa evolversi in civiltà, senza essere costretti a ricostruirne, una che sia, sulle macerie prossime venture di questa.
 
Dunque, davvero nessuno ha capito dove ci sta portando questo meraviglioso e colorato treno?

Davvero nessun governo, nessun organismo religioso ha più nulla da dire?

Davvero, nel 2008, si pensa ancora che il nazismo sia la peggiore sventura capitata ai poveri fra i popoli di questa terra?

Davvero non ci sono più leoni in Germania?

Davvero non ci sono più leoni a Roma?
I leoni sono forse stati ammansiti dal più potente e profittevole dio del profitto?
Oppure i cacciatori di leoni portatori di umanità hanno fatto bene il loro lavoro mentre il sonnifero tecnologico “popolare” ha prodotto i suoi effetti calmanti?

Signor generale, ho degli amici che abitano nelle vicinanze del cimitero che raccoglie le spoglie dei militari Usa caduti nell’ultimo conflitto europeo. Ogni tanto, quando vado a trovarli e l’orario di apertura lo permette, mi chiedono di accompagnarli nel cimitero. Ci vado volentieri. Soprattutto lui, il mio amico, mi dice che dobbiamo essere grati a queste migliaia di uomini (ci sono anche delle donne) che sono venuti a morire nel nostro Paese. Una volta era con noi anche sua moglie, una ciociara schietta e simpatica che fece notare, sia a me che a suo marito, che le truppe marocchine e senegalesi al seguito dei “liberatori” (sono sue le virgolette) si sono rese responsabili, in quei terribili mesi, di almeno 60mila stupri verso donne e anche bambini. “Da quel punto di vista, e lo dico come donna, non è un bel ricordare”: mi disse e aggiunse, lasciandomi perplesso, “e poi, se loro sono i liberatori, e voglio bene a questi ragazzi non credere, chi erano i miei parenti che, insieme ad un gran numero di giovani, sono morti come soldati in quella terribile guerra.” Non risposi, signor generale, preferii il silenzio; e purtroppo è lo stesso silenzio mortale che avvolge questo ancora martoriato paese, da quando quella guerra è finita.
Certo, la guerra era stata dichiarata e voluta non da quei soldati, sotto quelle zolle di terra, e neanche dalle migliaia di soldati italiani che con onore hanno difeso la loro terra (quella dove sono seppelliti quelli che li hanno uccisi) fino a che hanno potuto, appunto fino alla morte; e anche loro meritano l’onore delle armi; perché se mai verranno scoperti disonori riguarderanno ben altri ed alti livelli. Gli effetti tragici di ogni guerra li subiscono per primi, nella loro carne, i soldati che muoiono in battaglia.
Eppure, perché chi rispetta l’umanità non vorrebbe assistere a scontri mortali fra gli uomini, di fronte alle tombe di questi militari, che portavano la sua stessa divisa, signor generale, il mio rispetto e la mia compassione, in quei momenti si trasformano anche in commozione. Più di settemila sono sepolti in quella terra-sacrario, più di tremila sono elencati fra quelli di cui non si sono trovati i corpi. So che avete una speciale commissione che ha il compito di recuperare i resti dei soldati morti che, per esempio, ne sta recuperando alcuni nel territorio della ex Jugoslavia. L’istituzione di questa commissione vi fa onore; perché ricordare coloro che hanno dato la loro vita nei campi di battaglia è un dovere nei confronti della loro umanità non compiutamente vissuta; ed è anche un dovere che hanno i sopravvissuti nei confronti di chi ha accettato di indossare una divisa che ha onorato fino alla morte.
Ecco perché l’anno prossimo, quando leggerò che saranno stati portati a Vicenza i 9 soldati uccisi in Afghanistan perché possano, degnamente, essere ricordati in una ufficiale cerimonia funebre, la riterrò una cosa giusta.
Un soldato che muore, è un uomo che muore. Se poi è un soldato della Ederle di Vicenza che muore merita lo stesso rispetto di chiunque muoia mentre serve la sua patria qualunque essa sia. Dunque onore alla memoria dei soldati statunitensi che sono morti in una guerra che non hanno dichiarato, ma solo subito mortalmente nella carne. Non sono i soldati semplici che dichiarano le guerre, è noto. Non sono i soldati semplici che giocano alla geopolitica, è noto. Non sono i soldati semplici che decidono cinicamente i destini dei popoli, è noto.
Le vorrei fare una confidenza, signor generale. Quando nel futuro verrò a sapere della morte di questi nove soldati cercherò di sapere di loro il più possibile. Sarebbe stato necessario trovare notizie sulla loro vita anche familiare perché non rimanessero schiacciati dentro un crudo elenco di gente morta in guerra. La via obbligata diverrà il portavoce della caserma Ederle. Il sergente maggiore con cui parlerò è lo stesso che ho contattato per poter essere presente in questa giornata in cui lei aveva deciso di incontrare la gente di Longare. Il sergente maggiore anche fra un anno e mezzo si mostrerà gentile e disponibile; lo ringrazierà per me vero signor generale? È un portavoce impagabile. Quando lo contatterò però non si troverà a Vicenza, ma si premurerà di darmi un nominativo che avrei potuto chiamare presso la caserma Ederle se non fossi riuscito a trovare in internet le informazioni riguardanti questi nove ragazzi.
La posso portare con me nel futuro, signor generale, il tempo necessario per mostrarle come ho deciso di dare importanza a questa vicenda.
Ho chiesto ad un mio amico di aiutarmi a raccogliere dati su questi ragazzi nel mondo web, come mi invitava a fare il suo impagabile portavoce.
Ho dedicato a questi ragazzi, a questi suoi ragazzi, il tempo che serviva per mettere assieme i dati che li riguardavano. L’ho fatto volentieri signor generale. Così come volentieri avrei partecipato alla cerimonia funebre nella cappella della caserma Ederle. Certo non avrei trovato Lei, ma il generale Garrett. Lasci allora che possa per un attimo immaginare che avessi potuto incontrare sia Lei che il generale Garrett in quella cappella e che in questo nostro incontro (per ora cartaceo/digitale) avessi potuto con la mia presenza accendere il ricordo di quei nove soldati morti in Afghanistan, accomunando in questo ricordo tutti i soldati, non solo statunitensi, che dopo l’11 settembre, e a causa dell’11 settembre, sono morti o moriranno.
 

 Israel  Garcia  24 anni  Sergente  di  Long Beach  California
 Pruitt A.  Rainey  22 anni  Caporale  di  Haw River  Carolina del Nord
 Jonathan R.  Ayers  24 anni  Caporale  di  Snellville  Georgia
 Matthew B.  Phillips  27 anni  Caporale  di  Jasper   Georgia
 Jonathan P.  Brostrom  24 anni  Tenente  di  Honolulu  Hawaii
 Sergio S.  Abad  21anni  Specialista  di  Morganfield  Kentucky
 Gunnar W.  Zwilling  20 anni  Caporale  di  St. Louis  Missouri
 Jason D.  Hovater  24 anni  Caporale  di  Clinton  Tennessee
 Jason M.  Bogar  25 anni  Caporale  di  Seattle  Washington
Questi soldati facevano parte della Compagnia scelta del 2° Battaglione, del 503° Reggimento paracadutisti, il reggimento è noto con il nome di “The Rock”.
La cerimonia funebre si è svolta presso la cappella della caserma Ederle venerdì 18 luglio 2008 alle ore 14,00.

Ho cercato notizie su questi soldati. Ragazzi normalissimi, sport, musica, impegno sociale, voglia di emergere, questi ragazzi mostrano lo stesso mondo vitale di migliaia di altri giovani, non solo negli stati Uniti.

Sergio Abad del Kentucky
Sergio, che era uno specialista, sarebbe diventato padre in dicembre. È morto non sapendo che avrebbe avuto una figlia. Di lui parla la sua amica Marybeth Klock-Perez, “eccelleva nel karate. Aveva un sacco di energia e abilità nell’insegnare ai ragazzi.” “Era molto atletico e poteva stendere centinaia di aggressori senza problema,” “Aveva sempre qualcosa di positivo o divertente o impertinente da dare.”
Jonathan R. Ayers della Georgia
Del caporale Jonathan parla il padre Bill.
“Gli piaceva Jeff Foxworthy, di cui fece una principale personificazione e amava i commedianti della Compagnia del Collare Blu.”
Voleva portare la gioia agli altri. “Non amava la tristezza. Non gli piaceva che la gente fosse triste.” Ayers aveva molti interessi – il footbal, il bowling, il pattinaggio su ghiaccio – e  amava gli Atlanta Thrashers, la sua squadra di hockey, “Jon era molto, molto forte, e non avrebbe mai permesso a nessuno di passare per quella porta,” ha detto il padre. “Ha sempre giocato in difesa, che è praticamente quello che stava facendo fino al giorno in cui è morto.”
Racconta un suo compagno di battaglia. “In un altro punto del posto di osservazione, il caporale Jonathan Ayers ha continuato a sparare con una mitragliatrice M-240, malgrado i colpi di armi leggere ed il fuoco di RPG del nemico. Ayers continuò a sparare finché non venne colpito e ucciso.”
Jason M. Bogar del Washington
Di Jason parla la madre Carlene Cross.
Aveva un diploma di elettricista. Gli piaceva la fotografia, durante il suo servizio in Iraq e poi in Afghanistan la usava riprendendo i suoi compagni i bambini “dava loro sempre delle caramelle, anche soldi. Amava veramente quei ragazzi,” gli piaceva fotografare anche la gente che incontrava. “Era un artista, aveva un’alta capacità creativa” dice di lui il reverendo Michael Bogar.
Jonathan Brostrom delle Hawaii
Del tenente Jonathan parla il Maggiore Ed Leo, ufficiale esecutivo dell’Università dell’Esercito delle Hawaii.
Brostrom nel suo anno di maturità su 4000 cadetti dell’Esercito arruolati da 270 università, era tra i migliori. “Era uno dei veramente rari studenti che durante le estati è stato capace di diplomarsi nella scuola dell’esercito di assalto aereo, paracadutismo e tuffi”. “Giocava a golf e competeva nei tornei tenuti dall’Associazione di Golf Giovanile dello Stato di Hawaii e dall’Associazione di Golf Giovanile di Oahu.” Ha detto di lui il suo precedente allenatore di golf, Jim Weicking: “Jon faceva un gran bene alla squadra. Era assolutamente un tipo compagnone. Era un personaggio.”
Israel Garcia della California
È la sorella Hilda Revolorio che ricorda il sergente Israel.
“Amava il calcio e i cavalli, aveva sempre voluto entrare nell’Esercito, servire il suo paese ed essere ricordato.” “Aveva sempre detto che voleva che il mondo lo ricordasse come un eroe, e questo è tutto quello che chiediamo. Ha combattuto e si è addestrato così duramente per la sua nazione.” “Non ci sono parole per descriverlo. Era amato da tutti, ci mancherà il suo sorriso, il suo grande senso dell’umorismo. Ci mancherà davvero.” Lascia la moglie Lesly. “Si sono incontrati alla Piscina Belmont Plaza l’estate prima del loro anno di maturità alle superiori. Lui è stato l’amore della sua vita.” A centinaia si sono riuniti nella chiesa della sua famiglia per onorarlo. “Il servizio è stato stupefacente. Esattamente come lui lo avrebbe voluto. So che stava guardando in giù e diceva, tutta questa gente è venuta qua per me. La moglie Lesly ha detto che suo marito sarebbe stato felice di come sono andate le cose e come è stato onorato.”
Jason D. Hovater del Tennessee
Del caporale Jason parla la sorella Jessica Davis.
“Jason si è arruolato per un senso del dovere e perché voleva avere una disciplina nella vita.” “Voleva far parte di ciò a cui credeva e vi si dedicava pienamente” di lui parla anche la moglie Jenna. “Jason era la persona più buona che fosse possibile trovare. Per carattere ed integrità. Era così leale con me, con la sua famiglia, con gli amici, col suo lavoro. È stato un soldato, ma è solo una frazione del bene che ha portato a questo mondo.” Jason era anche un esponente di chiesa che aveva fatto negli anni recenti dei viaggi missionari, uno in Russia e l’altro in Guatemala. Lui e i suoi fratelli hanno suonato per incidere CD di spiritual. “Non aveva mai incontrato uno straniero”, “Aveva un sorriso caldo che ti riscaldava il cuore.” Dice di lui uno dei suoi fratelli di chiesa.
Matthew Phillips della Georgia
Del caporale Matthew e degli altri 8 ci racconta un suo compagno d’armi lo specialista Tyler Stafford.
“I primi colpi di RPG (lanciagranate) e mitraglia vennero all’alba, colpendo strategicamente la base avanzata di mortai. Gli insorti quindi mirarono con i loro RPG il camion rimorchio all’interno dell’avamposto eliminandolo.” Erano circa le 4,30 del mattino. I 200 insorti attaccavano da diverse posizioni. Volevano prendere la nuova base. I soldati USA lo sapevano e combattevano come indemoniati. Sapevano che le loro vite erano in gioco. “È stata la cosa più coraggiosa che io abbia mai visto in vita mia, e non la rivedrò più. Normali esseri umani non sarebbero riusciti a fare questo. Non ci se la può fare. Tirarti su e rispondere al fuoco quando tutto attorno a te sta schioccando e fischiando e gli alberi, i rami cadono giù e i sacchi di sabbia esplodono e le granate RPG ti arrivano in testa… Era un combattimento a pugni allora, e quei ragazzi hanno dato il meglio di sé stessi.” Le ultime sue parole mentre si stava preparando a lanciare una granata, rispondendo allo specialista Tyler Stafford che lo stava chiamando in soccorso: “Dammi un secondo. Prima devo ammazzare questi tizi.”
Gunnar Zwilling del Missouri
Del caporale Gunnar ci parla il padre Kurt.
“Sarà un bagno di sangue,” gli aveva detto al telefono proprio in quei giorni. Temeva il peggio suo padre ma sperava, come tutti i padri, di veder tornare suo figlio a casa, “Erano nel posto più pericoloso della Terra. Erano in pericolo mortale, e non potevano farci niente. Erano soldati e dovevano fare il loro lavoro.” Era una padre tristissimo, non disperato.
Pruitt A. Rainey della Carolina del Nord
Del caporale Pruitt ci parla Jeff Terrell, il capo del gruppo di giovani dalla Chiesa Battista di Glen Hope, sono amici fin da quando erano ragazzini.
Prima di entrare nell’Esercito, Pruitt utilizzava il suo tempo libero facendo arti marziali, gli veniva naturale ritrovarsi come stella del wrestling delle scuole superiori, in più faceva volontariato per il ministero della gioventù della sua chiesa. Era entrato nell’esercito per pagarsi il college; voleva diventare insegnante, “Non era tipo da carriera militare, ma credeva in quel che faceva, Sentiva che questo lo avrebbe aiutato. Gli piaceva, ma aveva altri piani.” “Voleva davvero insegnare. Ci sapeva fare con i ragazzi. Era sempre circondato dai ragazzi.” “Ai ragazzi piaceva saltargli sopra come se fosse stato un grosso orso, Era un ragazzo possente, ma era gentile.”

Ancora pochi giorni e sarebbero tornati a Vicenza; erano in Afghanistan già da 15 mesi. Invece domenica 13 luglio a Wanat nella provincia di Kunar sono rimasti coinvolti in una durissima controffensiva di 200 Talebani ben armati.
“Spero solo che le mogli di questi ragazzi e i loro figli capiscano quanto coraggiosi siano stati i loro mariti e i loro padri,” ha detto il sergente Jacob Walzer. “Hanno combattuto come guerrieri.”
In questo incontro (per ora appunto cartaceo/digitale) con Lei signor generale vorrei che fosse certo della mia partecipazione al dolore degli amici e dei familiari di questi nove soldati attraverso i quali vorrei ricordare tutti coloro che hanno accettato di morire per il proprio Paese, vestendo una divisa, obbedendo agli ordini ricevuti, assolvendoli con coraggio e senso dell’onore.
Questi ragazzi, signor generale, e tutti gli altri che si sono ritrovati in campi di battaglia su territori stranieri si sono trovati al seguito di un Paese, un Paese che è anche suo signor generale, che ha ritenuto necessario esportare la Democrazia con la forza delle armi.
Ma cosa è esattamente la democrazia, signor generale. Cosa è esattamente la Democrazia prima che divenga, stranamente, la bandiera impositiva di un esercito.
Non che su questo termine, fin dall’antichità, ci sia stata molta chiarezza di vedute.
Neanche in Grecia, considerando che il termine è greco e congiunge due termini:

démos: popolo e cràtos: potere, il significato che si attribuisce al termine è quindi (etimologicamente appunto) potere del popolo.
Della democrazia, necessariamente applicata e quindi limitata alla singola città (da li il termine politica, in greco polis significa città), non se ne parlava, già da allora, un gran che bene, ed era già motivo di discussione anche feroce se si pensa ai “maneggioni” democratici a cui accenna Socrate nell’opera di Platone intitolata Repubblica. Non si può fare un copia incolla fra quei tempi ed oggi, ma la lettura non dico di tutta l’opera di Platone appena citata, ma almeno dell’ottavo libro sarebbe molto istruttiva per i liberi di mente.
Mi piace immaginare, diciamo così, che sia esistito un tempo nel quale il potere e la conoscenza erano diffusi fra i popoli; cioè ogni singolo individuo era autonomo quanto a potere e a conoscenza e condivideva con ognuno e tutti gli altri la capacità decisionale; perché il pensiero era il loro punto di connessione. Anche se parlavano lingue diverse potevano vicendevolmente comprendersi. Questo stato di cose voleva significare, in realtà, il termine democrazia. Poi avvenne qualcosa di molto grave e i popoli persero questa loro caratteristica; non si capirono più, persero le loro capacità di adattarsi geneticamente alle mutevoli condizioni della Terra. Il termine democrazia, o un termine similare, quindi, nel significato appena proposto, potrebbe provenire dai tempi remoti, in chissà quale lingua, di cui erano venuti a conoscenza coloro che erano già considerati antichi ai tempi di Socrate e Platone. Un termine divenuto ormai niente più che un debole ricordo e un sottile riferimento ai tempi (purtroppo ormai) lontani in cui i popoli non avevano bisogno di governanti e di reggitori.
Le genti che ricominciano a popolare la terra, non più capaci di autogovernarsi, diventano preda dei più forti. È qui che comincia la dolorosa storia dei governati e dei governanti. Si impongono, nel tempo, le Monarchie, dalla ribellione alle monarchie nascono le Oligarchie; ma ambedue hanno come sgabello il resto del popolo che è sistematicamente sfruttato e impoverito, anzi derubato perché loro possano arricchirsi. Nello sfondo ci sono, naturalmente, le ribellioni popolari che portano alla nascita delle cosiddette democrazie. È il problema del controllo di queste esplosioni di violenza di genti che si rifiutano di fare da sgabello che conduce al sistema attuale di governo. Bisognava trovare una soluzione, bisognava imbrigliarli, questi popoli, e per imbrigliarli bisognava imbrogliarli, e, pensa che ti ripensa, finalmente, dopo secoli di esperimenti, finalmente, “loro” trovarono il modo giusto. L’uguaglianza, la libertà, la fraternità; si d’accordo, purché la differenza (fra chi ha il potere e chi non lo può avere), furbamente resa invisibile, rimanesse. Il sistema imbroglia/imbriglia venne provato e migliorato sul campo, fino a trasformarlo in un meraviglioso pacco dono ad uso e consumo dei popoli della Terra.
Il potere del popolo, chiunque lo comprende, non è realmente visibile nelle istituzioni democratiche. È visibile invece un potere sottratto al popolo, attraverso la finzione elettorale di una demandazione – non rappresentanza – che ha solo una funzione incanalante, raffreddante e calmante delle tensioni sociali diversamente non governabili. Il potere sottratto al popolo è assegnato ad organismi appositamente creati ed istituiti (le famose istituzioni) dei quali si disputano il controllo gruppi, di fatto oligarchici, autoreferenti ed autocooptativi che, a loro volta, debbono rispondere ad un altro gruppo oligarchico che li mantiene al potere solo se sono perfetti esecutori degli ordini e se non commettono errori gravi. È un gruppo che potremmo chiamare l’oligarchia mondiale del profitto. È un dio trinitario il profitto, quando si adatta alle democrazie, non si fa mancare niente. Non ci credete? Allora pensate ai termini repubblica, popolo e mercato. Esattamente come nessuno sa dove abiti il teorico signor profitto, nessuno sa dove abitino le sue tre diramazioni: la teorica signora Repubblica, il teorico signor Popolo e il teorico signor Mercato; ma in nome di queste tre esistenze teoriche si prendono decisioni che hanno un unico punto in comune: non sono prese a favore dei popoli, non sono prese a favore dei poveri. E quando sembra che le decisioni siano a favore dei poveri e dei popoli, andate a guardarci meglio dentro e vedrete che hanno altri, e ben diversi, fini.
Certo il nostro guaio è che le cose non sono più come erano tanto tempo fa, quando il pensiero era il riferimento unitario, quando non c’era malizia, non c’era furto; d’accordo, ma perché si è lasciato che su questo guaio gozzovigliassero gli approfittatori invece di unire le forze e cercare di ricostruire, in qualche modo, il mondo il più simile possibile a come ce lo raccontavano gli antichi.
Qualche tempo fa, mi è stato chiesto che differenza vedessi fra il governare e il rappresentare e perché ritenessi che i popoli sono solo governati, ma non rappresentati. Cercai di spiegarmi conducendo i miei interlocutori ad immaginare un pollaio. Mi guardarono stralunati. Comprensibile. Nella lingua italiana, se qualcuno vi dice che sta governando un pollaio non vi sta invitando ad immaginare che le galline lo abbiano nominato governatore del pollaio; ma rimane il fatto che questa persona stia governando il pollaio; cioè si sta prendendo cura dei polli dando loro cibo e acqua, tenendo pulita l’area del pollaio, ritirando le uova e… decidere a quale gallo o gallina tirare il collo per uno specialissimo invito a pranzo o a cena. Bene, stiamo parlando di chi governa cosa e chi (si può governare, cioè prendersi cura, di una famiglia; si può governare, cioè pilotare, una nave) e lo stiamo estendendo ai nostri governanti, sperando che non se la prendano. Ora, immaginiamo che i polli di tutti i pollai del mondo, stufi di essere sfruttati (anche imprigionati a migliaia in stretti capannoni) e invitati a pranzi non graditi, decidano di fare una rivoluzione ed eleggano dei loro rappresentanti. I rappresentanti dei polli non perderanno tempo in riunioni stucchevoli, semplicemente faranno sapere agli umani che possono fare accordi relativi al numero di uova prodotte da ogni pollaio in giro per il mondo, che faranno le uova solo se le condizioni di vita siano almeno “umane”; ma che si rifiuteranno di accettare che un solo pollo venga ucciso.
Lo spartiacque fra chi ti vuole governare, e non sa neanche chi sei, e chi accetta di rappresentarti, perché tu glielo hai chiesto, è, per esempio, la frase “tanto peggio, tanto meglio”: chi ti rappresenta non la dirà mai, perché non riesce neanche a pensarla.

Ecco, questa è la differenza fra governare e rappresentare.

Ecco perché, signor generale, è mia personale convinzione che l’esportazione della democrazia, questa democrazia, è il più grande imbroglio che il suo Paese stia perpetrando nei confronti dei popoli ai quali la vuole imporre.
Anche nei Paesi a ridosso della Russia, naturalmente, si cerca di esportare la democrazia, cioè un tipo di governo controllabile, che sia penetrabile dal WTO che a sua volta possa rilasciare il virus ameba del profitto perché si possa installare in pianta stabile nel “Paese democratizzato”.
Signor generale, nella prima metà degli anni ‘90, mentre l’URSS aveva il respiro affannoso fino a frantumarsi e recuperare pezzi di repubbliche nella CSI (Comunità di Stati Indipendenti praticamente una confederazione a differenza del suo Paese) tutta l’area caucasica entrò in fibrillazione.
Furono anni nei quali (come in Jugoslavia) il suo Paese interferì in modo pesante in tutta quell’area, anche nella stessa Russia, anche essa in fibrillazione. Il 1991, e vi dovrebbe essere noto signor generale, fu un anno dedicato ai referendum di indipendenza di molti Paesi che si trovavano all’interno dell’URSS o sotto la sua diretta influenza. Non si lasciò scappare questa occasione la Georgia dove il 31 marzo del 1991 si svolgeva un referendum il cui quesito era il seguente:
‘‘Siete d’accordo sul ripristino dell’indipendenza statale della Georgia, sulla base dell’atto di indipendenza del 26 maggio 1918?’’
Un quesito che, da solo, la diceva lunga sulla resa dei conti, con aiutino esterno, che si stava mettendo in moto.
Iniziava così il lavorio ai fianchi della Georgia.
La defenestrazione del presidente Eduard Shevardnadze, accusato di brogli elettorali, avvenuta il 22 novembre del 2003, sull’onda (come lavorano bene le ONG) di una sollevazione “popolare” la “rivoluzione delle rose”. La strana morte del primo ministro georgiano Zurab Zhvania, avvelenato dalle esalazioni di una stufa, il 3 febbraio del 2005. Ambedue i Presidenti erano considerati attenti alle posizioni della vicina Russia. Per il presidente Zhvania si parlò di un complotto per togliere di torno l’elemento più moderato ingaggiato per portare a termine la “rivoluzione delle rose”. Ormai stanno derubando le genti anche del significato delle parole che usano. Erano solo due avvenimenti; ma, da soli dimostravano che gli eventi in Georgia seguivano un calendario non proprio georgiano ma quelli di una “accorta regia esterna” come accusò allora il Cremlino indicando il suo Paese, signor generale.
E come non tenere in considerazione le accuse del Cremlino quando sulla scena georgiana appare Mikhail Saakashvili, un rampante filoUSAense, allevato alla Columbia University, organizzatore (guarda, guarda) della “rivoluzione delle rose” che ha portato nella capitale migliaia di dimostranti per occupare il Parlamento.
Fu lo stesso Saakashvili che, ricevendo in pompa magna il presidente Bush a Tbilisi nel maggio del 2005, riuscì a proiettare un’ombra sinistra sulla strana morte del presidente Zhvania, facendola assomigliare più ad un assassinio che a un incidente domestico. Con lui la Georgia ha iniziato il percorso pericoloso di un vaso di coccio fra vasi di ferro. Tanto a pagare il prezzo sono sempre gli ignari popoli e non i mestatori di professione.
Accenno alla Georgia, non solo perché strategicamente (come ben sanno gli strateghi militari del suo Paese) si trova sul Mar Nero e confina con la Cecenia e la Turchia (si legge gas e petrolio); ma anche perché all’interno dei suoi confini esistono tre repubbliche autonome create al tempo dell’Unione Sovietica: l’Ossezia, l’Abkhazia, l’Agiaristan.
Quanto all’Abkhazia, una regione che si trova fra il Mar Nero, le prime propaggini del Caucaso e la Russia meridionale già dall’agosto del 1990 aveva cercato senza riuscirci di scrollarsi di dosso l’ingombrante Georgia. Quando il parlamento abkhazo il 23 luglio 1992 proclamò l’Abkhazia “Stato sovrano” con diritto all’autodeterminazione, le cancellerie occidentali non si affrettarono a riconoscerne l’indipendenza come avveniva proprio in quel periodo per altri Paesi più “interessanti” e non troppo filo russi come l’Abkhazia. Anche perché era già dal 1990 che fra georgiani e abkhazi si verificavano scontri a sangue e armati.
E a proposito dell’Abkhazia, tanto per far scendere la tensione, mi piace raccontarLe, signor generale, quanto è avvenuto, riportato da un giornale locale, a Tsarche un villaggio abkhazo. Si racconta che un disco largo fra i dieci e i dodici metri si sia posizionato ad una altezza di circa 25 metri al di sopra del piccolo villaggio, sotto lo sguardo stupito di chi si trovava nei paraggi. Da questo disco, erano discesi tre esseri che si erano diretti verso una abitazione e lì erano entrati cercando un contatto telepatico con una bambina di nove anni di nome Sofiko che si trovava da sola in casa, per poi uscire, molto velocemente, raggiungere il disco e ripartire. La piccola Sofiko ha raccontato agli stupiti abitanti del villaggio che subito le si sono fatti intorno che questi esseri avevano due braccia molto lunghe e avevano tre o quattro gambe e che le erano sembrati dei robots. Attraverso il contatto telepatico con questi esseri, le era stato mostrato l’interno del disco volante che era pilotato da due belle ragazze con gli occhi azzurri.
Vede, signor generale, che all’Abkhazia, in quel 4 settembre del 1990, non erano interessate solo la Georgia o la Russia?
Ai tempi dell’Unione Sovietica l’Ossezia, una Repubblica autonoma da sempre fedele alla Russia venne divisa in due tronconi autonomi, uno all’interno del territorio georgiano (Ossezia meridionale) e l’altro all’interno della Repubblica autonoma dei ceceni – ingusceti (ossezia settentrionale). Quando la Georgia (nel 1991) dichiarò la sua indipendenza dalla Russia, l’Ossezia del sud, che già dal dicembre del 1990 si voleva distaccare dalla Georgia, si ribellò e a più riprese proclamò la sua volontà di unirsi ai “fratelli” dell’Ossezia del nord. La Georgia si è sempre opposta a questi distacchi considerando le due repubbliche autonome parte del proprio territorio.
Una crisi mai risolta che si è trascinata fino al luglio del 2008 (quando Lei generale sarà in Iraq da tempo).
Dovendo trattare eventi che si verificheranno l’anno prossimo (siamo sempre nel 9 giugno del 2007) signor generale, siccome Lei non potrà occuparsi di questa vicenda in modo approfondito, essendo impegnato, appunto, nelle questioni irachene, Le propongo il trasferimento oggi per allora. Venga con me, ci spostiamo per il tempo che serve, lo abbiamo già fatto no? E poi torneremo qui, in questa stanza. Ci spostiamo per alcuni minuti nel futuro e prometto che la riporterò qui perfettamente integro. Io mantengo sempre la parola data. Bene trasferiamoci nella notte fra il 7 e l’8 agosto del 2008 al di sopra del territorio dell’Ossezia del sud. Si vede al confine georgiano un movimento di truppe e di mezzi che si vanno posizionando con il favore delle tenebre. Sembra una operazione in grande stile, si stanno posizionando apparecchiature in grado di garantire assistenza satellitare. Queste apparecchiature non sono georgiane, non Le sembra signor generale? Poi quelli che stanno armeggiando intorno a queste apparecchiature non sembrano georgiani. Sono quasi le tre di notte a Tskhinvali, capitale dell’Ossezia, la gente sta dormendo e non immagina quello che sta per avvenire. Le truppe georgiane precedute dall’artiglieria pesante entrano nella città che si sta risvegliando scoprendosi sotto attacco armato. Ci sono morti nei cortili delle case e lungo le strade.
Alle sei del mattino dell’8 agosto, vengono mobilitati i riservisti come se lo scontro armato fosse provocato dai sudosseti e i georgiani stiano solo cercando di reagire. (In gergo militare si chiama distorsione mediatica funzionale)
Intorno alle sette e trenta del mattino l’Ossezia chiede aiuto alla Russia perché truppe georgiane stanno entrando nella capitale; ma stanno trovando opposizione e ci sono scontri fra i due eserciti nella parte meridionale della capitale. I soldati georgiani che fanno parte assieme ai russi della forza di interposizione sparano contro i loro colleghi russi uccidendone alcuni. Il che rende ulteriormente visibile la premeditazione della provocazione in atto. Vengono bombardati anche l’ospedale e l’università.
Da quello che sembra, signor generale, si cerca di provocare la reazione russa. Infatti: Intorno alle nove del mattino dell’8 agosto, il primo ministro russo Vladimir Putin, che si trova a Pechino in occasione dell’inizio dei giochi olimpici, dichiara: “Le azioni aggressive della Georgia verso l’Ossezia del sud provocheranno azioni di risposta”. Gli fa eco, due giorni dopo, il presidente degli USA George W. Bush, anche lui a Pechino, definendo inaccettabile la violenza della Russia nei confronti della Georgia.
Incredibile, signor generale, come le dichiarazioni pubbliche assumano altra luce se collegate alla conoscenza appropriata dei fatti a cui si riferiscono.
E infatti la risposta russa giunge con l’invio di una colonna di carri armati e di truppe che entrano in Ossezia del sud e si dirigono verso la capitale. Intanto i bombardamenti sulla capitale dell’Ossezia del sud continuano.
Giungono anche i caccia russi.
A questo punto accade qualcosa di strano; quelle apparecchiature che erano state posizionate in quell’avvallamento, vede signor generale, laggiù, alla nostra sinistra, iniziano a ronzare e cercare qualcosa nel cielo; sembra che si stiano collegando con qualche satellite, non certo georgiano. Nei monitor non ci sono solo i caccia; ce ne sono alcuni che mostrano l’intero territorio in tempo reale, con tutto quello che vi si muove sopra. Ci sono dei monitor all’interno dei quali si formano dei monitor più piccoli che visualizzano ognuno un singolo caccia che non viene più perso di vista. Incredibile, la visualizzazione proviene dai satelliti che sono più di uno, e alcuni fissi (cioè a percorso obbligato) e altri (collegati con i fissi) in grado di spostarsi di orbita non solo verso l’alto o verso il basso oltre che aumentare o diminuire di velocità lungo il loro percorso, come se volessero, coordinati da quelli fissi, identificare i vari punti in movimento nello spazio sovrastante la lontana superficie sottostante. Ogni satellite militare fisso può controllare il movimento di ognuno di questi micro satelliti (che viaggiano al loro seguito) che hanno una forma strana e che formano come una piccola ma ampia nuvola invisibile alla ricognizione elettronica, è come se fossero nascosti apparendo elettronicamente trasparenti. Meglio non mi so spiegare. Li vede signor generale? Ah scusi non posso pretendere che mi segua fino a quassù, qui non c’è aria da respirare. La cosa che mi lascia perplesso, signor generale, ma lei ne saprà più di me, è che i puntatori radar delle artiglierie contraeree mobili dell’esercito georgiano sono spenti. Ma i puntatori che orientano le artiglierie contraeree georgiane sembrano essere direzionati dalle apparecchiature che si trovano, su mezzi a loro volta mobili, in quell’avvallamento, è come se indifferentemente i puntatori delle contraeree, dovunque si trovino in una vasta area, possano essere direzionati sia dal radar, nelle vicinanze, sia da queste apparecchiature da loro invece molto distanti. È evidente che il triangolatore è spaziale. I puntatori della contraerea si posizionano e, un istante prima di aprire il fuoco contro i caccia, vengano riaccesi i radar. Questa procedura si ripeterà nei giorni che seguono.
Hai capito la furbata. Così i russi penseranno che i georgiani sono diventati molto abili e veloci ad usare e a spegnere i radar, sfuggendo agli individuatori tecnologici russi.
“C’erano cittadini americani nell’area del conflitto durante le ostilità in Georgia. Bisogna ammettere che possono essere stati lì solo su ordine diretto dei loro capi”, ha dichiarato Vladimir Putin intervistato dalla CNN nel mese di settembre 2008.
Quindi questa gente che abbiamo visto armeggiare intorno a quelle apparecchiature erano cittadini USAensi; stavano provando sul campo nuovi tipi di armamenti, usando come paravento i georgiani (poveri georgiani, gestiti da una matricola della Columbia University, mai fare accordi con i vasi di ferro che non rispettano i vasi di coccio, se si è vasi di coccio). Il piano era duplice attaccare l’Ossezia del sud, in modo improvviso e di notte come i ladri, per poi accusare la Russia di averli attaccati e, nello stesso tempo, studiare (e interferire con) le reazioni militari della Russia dall’alto.
L’armamento che abbiamo visto mi fa ricordare qualcosa di cui Le parlerò quando torneremo nel passato, nella stanza presso la base Pluto, signor generale.
Nei giorni di questo infuocato mese di agosto, veniamo inoltre a sapere che a Gori, abbandonata precipitosamente dai georgiani, i russi avrebbero messo le mani su sei veicoli militari, sui quali c’erano strumenti molto sofisticati in grado di connettersi con satelliti militari USAensi. Queste apparecchiature pare facessero parte dei sistemi connessi alle “guerre stellari”. Un bottino di guerra mica male del quale gli USA avrebbero chiesto la restituzione, perché dentro le apparecchiature si trovavano chiavi di accesso al loro sistema di sicurezza militare satellitare.
Intanto seguiamo questa crisi che, quando il calendario segna il giorno 9 agosto, avrà già contato oltre 1500 morti e 30mila persone in fuga.
Il presidente russo Dmitri Medvedev ha accusato le truppe georgiane di genocidio nei confronti della popolazione sudosseta.
I caccia russi distruggono le infrastrutture di Poti il più grande porto georgiano sul Mar Nero. Sempre nel Mar Nero viene affondata una motovedetta georgiana lancia-missili, anche quella evidentemente collegata con quelle strane apparecchiature. Navi da guerra russe entrano nel Mar Nero.
Vengono anche distrutte alcune postazioni di artiglieria nei dintorni della città di Gori poi occupata dai Russi. La Russia invia in Ossezia del sud forze speciali paracadutate alla periferia di Tskhinvali, di cui riprende il controllo cacciandone gli invasori georgiani.
Evidentemente i russi hanno superato e risolto presto l’effetto sorpresa dell’abbattimento dei loro caccia in un apparente silenzio radar.
La Georgia, allarmata dalla piega non prevista che stanno prendendo gli eventi, prende da subito una decisione che La tocca da vicino, signor generale: richiama in patria i suoi duemila soldati che si trovavano in Iraq. Intanto anche l’Abkhazia entra in gioco, dichiarando lo stato di guerra con la Georgia che si appresta ad inviare truppe nella Repubblica confinaria e secessionista.
La reazione russa supera le aspettative degli istigatori d’oltreoceano e inizia lo sbarramento diplomatico, questa volta di segno opposto a quello che abbiamo registrato quando si sfasciava la Jugoslavia spingendo le repubbliche alla secessione e all’indipendenza.
L’Europa chiede che si ponga fine al conflitto. Un esempio per tutti. La Germania di Angela Merkel, lo stesso Paese che aveva appoggiato lo smembramento della Jugoslavia e non ha avuto nulla da eccepire sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo, accusa la Russia di uso sproporzionato della forza e preme perché la Georgia entri subito nella Nato. Evidentemente la signora Merkel cerca l’allargamento del conflitto, deve avere un esercito forte da mettere in campo la Germania.
Dopo che il parlamento russo si è pronunciato a favore del riconoscimento dell’indipendenza di Ossezia del Sud e di Abkhazia, sempre il cancelliere Angela Merkel, prenderà posizione perché l’integrità territoriale della Georgia sia difesa e la sua sovranità sui territori delle Repubbliche che hanno dichiarato l’indipendenza sia rispettata. Non solo ma, dimostrando di essere una grande statista, Angela Merkel propone al presidente semestrale di turno della UE il francese Nicolas Sarkozy di indire una conferenza internazionale sul Caucaso senza la Russia.
La reazione coerente dei Paesi europei nelle vicende che hanno investito prima la Jugoslavia (con il finale della sceneggiata del Kosovo) e poi la Georgia è di tutta solare evidenza. L’unica incredibile evidenza è che la gestione della politica estera europea non è funzionale agli interessi dell’Europa.
Ad aggravare lo scenario già difficile ci si è messo anche un alto funzionario USAense che ha dichiarato che a causa del riconoscimento dell’indipendenza delle due Repubbliche secessioniste dalla Georgia è a rischio la partecipazione della Russia agli organismi internazionali come il G8, il WTO e l’Osce.
La Russia ha retto l’urto internazionale e le risposte del presidente Dmitri Medvedev e del primo ministro Vladimir Putin sono state gelide e perfettamente in sintonia.
La Russia fa sapere che i territori della Ossezia del sud e dell’Abkazia verranno protetti dal suo esercito se questo fosse necessario, la Russia fa anche sapere che è in grado di fare a meno della NATO e rivedrà tutti gli accordi con il WTO; inoltre la Russia fa sapere che nelle sue decisioni è stata determinante la questione del Kosovo.
A prima vista sembra un autogol dell’Amministrazione del suo Paese, signor generale.
Ora possiamo tornare alla base Pluto, nel passato, signor generale; sperando che non si sia stancato troppo.
Si ricorda quando prima ci trovavamo nel futuro, al disopra dell’Ossezia del sud e Le ho detto che mi sono ricordato di qualcosa che avrei voluto dirLe? La faccenda di cui volevo parlare con Lei riguarda sempre il futuro ma ci troviamo sempre nel corso del 2007.
Ci sono due eventi nei quali Lei verrà certamente coinvolto come comandante del Setaf.
Uno si verificherà il prossimo 18 settembre e l’altro si verificherà il prossimo 8 novembre. A settembre ci sarà un incidente che coinvolgerà un F-16 della base di Aviano, ma per fortuna il pilota si salverà. A novembre, invece, sarà un elicottero della base di Aviano ad avere un incidente e purtroppo ci saranno sei morti e cinque feriti.
Sono approssimativamente le 18,30 del 18 settembre, quando a Zoldo Alto (nelle Dolomiti), precisamente in un bosco a circa 200 metri dalla località Soramaè, un caccia F-16 decollato dall’aeroporto Pagliano e Gori di Aviano, precipita a terra e prende fuoco andando in mille pezzi. Il pilota, un tenente colonnello dell’aviazione statunitense, riesce a catapultarsi fuori con il seggiolino (attivando il paracadute e atterrando nella vicina strada fra le località di Forno e Dont) prima dello schianto che comunque si è verificato lontano dalle abitazioni. L’aereo insieme ad altri velivoli (tutti del 31/mo Fighter Wing Usaf) stava partecipando ad una esercitazione non meglio specificata in uno spazio aereo riservato. Tutta l’area è stata sequestrata e ne è stato impedito l’accesso fino al recupero dei resti dell’aereo.
Fra le ipotesi degli abitanti del posto c’è quella che l’aereo, entrato in una formazione nuvolosa dove si stava generando una turbolenza temporalesca, sia stato colpito da un fulmine.
Siamo nei pressi di Santa Lucia di Piave in provincia di Treviso sono le 12,15 dell’8 novembre, un elicottero UH-60 Black Hawk (Falco Nero) in dotazione all’esercito statunitense improvvisamente perde il controllo e da una altezza calcolata (ma non con certezza) di circa 20 metri prima comincia a girare poi cade in picchiata fra i sassi dell’isolotto in mezzo al fiume Piave e si spezza in due tronconi. Siamo a poche centinaia di metri dall’autostrada A7.
Sull’elicottero ci sono 11 militari. L’esercito e l’aeronautica statunitense perdono due soldati e quattro avieri. Cinque componenti dell’equipaggio rimangono feriti, uno di loro molto gravemente. Le autorità statunitensi hanno dichiarato che svolgeranno le indagini in modo autonomo e lo hanno anche comunicato alla procura di Treviso.
Dalla sede tedesca del Quinto Corpo d’Armata dell’Esercito USA a Heidelberg è stata diffusa una nota che definisce l’incidente “non spiegabile”; apparentemente causato da una improvvisa perdita di controllo non ancora determinata e che “non sono emersi elementi che possano evidenziare un errore dei piloti o fattori ambientali che abbiano contribuito all’incidente”.
“Ero al cellulare e ho visto con la coda dell’occhio l’elicottero che girava su se stesso. Poi si è avvitato ed è caduto sull’isolotto del fiume. C’era soltanto un po’ di fumo. Ma subito ho visto uscire un uomo, camminare, si è allontanato di una trentina di metri, poi è tornato indietro verso la carlinga”; sono le dichiarazioni “a caldo” di un testimone (da Il Gazzettino di venerdì 9 novembre 2007).
Ora, mi permetta, signor generale, di renderLe noto che, sempre quest’anno nella prima metà di dicembre trapelerà la notizia che gli scienziati del suo Paese hanno messo a punto uno strumento (HPEMS: High Power Electro Magnetic System – Sistemi Elettro Magnetici di Alta Potenza) che è in grado di bloccare i veicoli in movimento attraverso l’emissione di un raggio invisibile, (da noi se ne parlava ai tempi di Guglielmo Marconi).
Le posso, a questo punto rammentare la domanda che le avevo fatto all’inizio di questa chiacchierata? Una domanda che se connessa alle “stranezze” avvenute in Ossezia del Sud, agli “incidenti” occorsi ad un vostro aereo e ad un vostro elicottero, alle vostre ricerche di nuove tecnologie militari che vorreste sperimentare sul campo, alla ristrutturazione delle forze armate proprio nell’area vicentina e alla “necessità” di occupare l’area dell’Aeroporto Dal Molin, forse potrebbe aiutarci a capire che cosa esattamente si stia preparando a fare la Forza tattica del Sud Europa proprio da queste parti.
Eccola la domanda che le avevo fatto prima.

Signor generale, la base di Longare è stata assegnata alla 173a brigata che si sta trasformando in un reparto aviotrasportato di paracadutisti, quindi un reparto di pronto intervento. La stessa base (collegata con quella sotterranea del Tormeno?) si sta trasformando in un centro strategico di comunicazione (spazio, cielo, terra) in grado di interagire con i reparti in movimento, con elicotteri e aerei, sistemi missilistici mobili, che possono anche essere dotati di armamenti nucleari tattici, attraverso una connessione militare satellitare. Quindi il costituendo reparto aviotrasportato è in grado di usare dispositivi radiocomandati di nuova concezione?

A questa connessione che lascio alla sua intelligenza, vorrei aggiungere un pensierino che è poi la domanda chiave di queste ultime valutazioni.

Nello sfondo delle dichiarazioni del Segretario di Stato Condoleeza Rice che fa sapere che gli Stati Uniti hanno una superiorità tecnologica che non potrà essere superata che fra un secolo; signor generale non potrebbe essere che sia l’aereo F-16 che l’elicottero Falco Nero siano stati abbattuti con sistemi militari satellitari di un altro Paese. E visti i resti dell’elicottero caduto (essendo stata impedita la vista di quelli dell’aereo caduto), viste le dichiarazioni del comando del Quinto Corpo d’Armata dell’Esercito USA di stanza ad Heidelberg; non è che mentre voi sperimentate un raggio che blocca le parti in movimento di un ingranaggio quale che sia (quindi anche elettronico); in questo Paese, contro il quale voi vi state attrezzando per uno scontro che porterà alla prima vera guerra mondiale, sia già stato realizzato un raggio destrutturatore, che è quello che ha reso inservibili le attrezzature elettroniche di connessione e di guida dell’elicottero e che è a un passo dal nullizzatore?
Non potrebbero questi “incidenti” avervi portato all’avventura georgiana per verificare se questo Paese fosse davvero dotato di armamenti a voi sconosciuti e che spediscono nel lontano passato le dichiarazioni tambureggianti del vostro Segretario di Stato?

Altra domanda signor generale.
Se il popolo italiano chiedesse a gran voce ai suoi rappresentanti in parlamento, se avesse dei rappresentanti, di chiedere alle forze armate degli Stati Uniti d’America di lasciare finalmente questo paese dopo sessanta anni dalla fine della guerra; questo non significando nessun tipo di rottura di relazioni; voi ve ne andreste o minacciosamente direste: provate a mandarci via?

Dopo un’ora e mezza di chiacchierata, mi congedo da Lei, signor generale, intanto augurandoLe di trovarsi bene nel suo nuovo ruolo in Iraq, poi chiedendoLe scusa per averLa tenuta così a lungo a parlare (quasi da solo) di problemi che si sono allargati al mondo intero e sperando che, nonostante tutto poi, alla fine, ci si possa davvero incontrare. Perché il rapporto umano è come il filo d’erba che impedisce a un montanaro di cadere in un burrone.

 
Alberto Roccatano
 
 8 ottobre 2008

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