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Il leone di Palmira. Riflessione in due atti su una distruzione.

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Atto primo

Sui quotidiani del 4 luglio (2015) leggemmo che i miliziani jihadisti dello Stato Islamico avevano distrutto la Statua del Leone di Palmira, in Siria. Anche se i talebani nel 2001 ci avevano già preparato in modo direi soddisfacente a questo tipo di notizie, rimaniamo comunque sempre un po’ turbati dalla devastazione dei reperti archeologici: il dato inquietante riportato dalla Stampa è che circa il 20 per cento dei 10 mila siti iracheni e siriani sotto il loro controllo è già stato polverizzato. 
Irina Bokova, capo dell’Agenzia culturale dell’Unesco, ha affermato che

«le distruzioni degli artefatti archeologici da parte di Isis non hanno precedenti nella storia contemporanea».

Sic transit gloria mundi.
Dato che la storia si ripete diventa però subito accettabile che anche nella storia contemporanea accadano fatti di questo tipo: cose così in fondo sono sempre capitate in un po’ tutte le epoche. Sarebbe stata solo più una trascurabile questione di tempo.
Ma ci scandalizza di più l’Isis o il crollo ‘naturale’ di Pompei? Se non altro l’Isis un motivo concreto e meditato ce l’ha per procedere sulla sua strada mentre noi italiani ci accontentiamo di guardare da lontano le nostre colpe sperando nelle dimissioni del ministro dei beni e delle attività culturali di turno: sta di fatto che ciò che rimane in piedi di un qualsiasi passato prima o poi si sgretolerà inevitabilmente. E ciò che mi viene da pensare andando un po’ controcorrente è che le distruzioni possano essere un bene.
Procediamo con logica facendoci aiutare dai ragionamenti di due illustri personaggi.
Borges era solito sostenere che il numero totale dei temi, delle parole e dei testi che l’uomo è in grado di produrre sia limitato. Effettivamente il ragionamento matematico fila e sprono chi non l’avesse mai fatto a leggere il suo famosissimo racconto La biblioteca di Babele in modo da rendersene conto con più coscienza. Il ragionamento del grande argentino però è più sottile e prosegue dimostrando che nulla può andare perduto: ci sarà sicuramente qualcuno prima o poi che, fra le innumerevoli combinazioni possibili di tutti i vocaboli, riscriverà di certo la Divina Commedia pur non avendone mai sentito parlare. Quella che danno le parole è un’immortalità sufficiente a tutti e per sempre e quindi la perdita di ciò che è scritto non dovrebbe rappresentare un problema.

Più o meno della stessa idea, anche se esposta con un ragionamento diverso, sembrò essere stato il grande scrittore Giorgio Saviane: in un suo intervento su «Nuova Antologia» dal titolo La biblioteca di Alessandria argomentò con arguzia un interessante caso storico molto affine ai nostri fatti di attualità. Nel 642 d.C., su ordine del califfo Omar, un generale arabo avrebbe decretato la distruzione dell’immensa biblioteca. Il califfo aveva infatti risposto al dubbio di un non ben precisato Johannes Grammaticus su quale dovesse essere il destino di tutto quel patrimonio di rotoli con contenuti quasi interamente pagani, argomentando che nei testi della biblioteca o c’erano cose già contenute nel Corano oppure cose che nel Corano non erano state scritte; qualora ci fossero già state sarebbe stato inutile conservarle, in caso contrario era un bene distruggerle in quanto dannose o inutili. 
Commentando il fatto Saviane si divertì – o forse no – a ribaltare ciò che nella nostra società è considerato alla stregua di un archetipo: la conservazione della memoria.

“Sostituire la cultura col Corano se specificatamente era un atto di presunzione e di ignoranza, emblematicamente rappresentava l’avvenire. Che, se deve far tesoro della cultura passata, deve anche far fermentare il nuovo, ed è più facile nella ricostruzione che nella conservazione.”(1)

Tutto questo però era riferito dai due intellettuali al campo della scrittura: sarà applicabile la proprietà transitiva all’arte? Varranno le stesse riflessioni per pittura e scultura? Sempre rimanendo in ambito matematico credo proprio di sì. E allora perché scalpitare tanto per qualche statua distrutta o qualche libro dato alle fiamme? Prima o poi, fosse anche fra un milione di anni, qualcuno rifarà tutto allo stesso modo e anche se non dovesse succedere – causa l’estinzione dell’uomo – sarà stato uno sprone utilissimo alla fantasia e alla creatività.

Manca però ancora un dettaglio.
Per chiudere il cerchio bisognerebbe essere equi fino in fondo: dopo la distruzione dei grandi Buddha nella valle di Bamyian in Afghanistan non mi pare ci sia stata una sorta di vendetta culturale da parte del resto del mondo nei confronti di quella che è l’arte islamica. Uccidere genera sete di vendetta ma è raro che si senta parlare di un derubato che vada a rubare a sua volta per vendicarsi del maltolto. Il furto della cultura o gli atti di vandalismo sulle opere del passato, per fortuna, non ci si sente in dovere di ripagarli con la stessa moneta in casa d’altri.
Per una volta però immaginiamo di rompere gli schemi in modo che l’equità a cui ho accennato prima possa generare un’ipotesi di lavoro intellettuale: sarebbero disposti quegli stessi miliziani jihadisti ad accettare la cancellazione di ciò che rappresenta la loro tradizione? Si tratterebbe solo di applicare quella che volgarmente viene intesa come legge del taglione; mi pare che da qualche parte stia scritto che “La punizione di un male è un male ad esso equivalente” (2).

Sono fiducioso e credo che per coerenza e rispetto della legge sarebbero felici di accettare e subire l’annientamento di tutto ciò che concerne la loro arte: oltretutto, avendo questi miliziani operanti nella cultura sicuramente letto Borges, saprebbero che cancellare un libro sacro dalla storia dell’uomo dovrebbe essere percepito come uno sprone verso una nuova attesa di un nuovo profeta in grado di riscrivere un nuovo libro sacro perfettamente identico a quello attuale.

Atto secondo

A poco più di un mese dalla distruzione dei reperti archeologici di Palmira, sui giornali del 18 agosto (2015) si segnalava la degna conclusione di tutto questo sfacelo con l’annuncio dell’uccisione dell’archeologo Khaled Asaad, responsabile da mezzo secolo del sito; dopo essere stato incarcerato e interrogato per oltre un mese (su cosa poi?), l’ottantaduenne è stato ucciso a coltellate sulla piazza di Palmira davanti alla folla, decapitato e infine appeso a un’antica colonna.
Anche questo a ragion veduta ha una sua logica: prima la distruzione degli oggetti e poi del simbolo della loro conservazione. Il problema però è che tutta la filosofia del mondo adesso non è più sufficiente a giustificare il fatto in questione e, parafrasando Jonas, il concetto di umanesimo dopo Palmira deve necessariamente essere rivisto: l’aevum barbaricum in cui siamo (e dico siamo in quanto questo è il mondo in cui viviamo anche noi ‘occidentali’) di nuovo ciclicamente sprofondati non riesce a trovare la strada per un suo rinascimento; c’è qualche cosa che ci frena, che ci tiene legati alla sofferenza e all’orrore con piacevole e costante dedizione.
Forse aveva ragione Anaïs Nin confessando nei suoi diari che non si può cercare un grande significato cosmico per tutto ma che ciascuno di noi deve trovare il proprio senso individuale, il suo personale romanzo. L’unità di significato, e forse anche la conservazione della storia, non appartengono all’uomo ma al tempo: non acceleriamo pertanto ciò che il tempo è in grado di fare già egregiamente da solo.
Tutto sarà cancellato, anche gli uomini, e quindi la distruzione della cultura passata, lo abbiamo visto, non rappresenta un grave problema agli occhi del determinista: peccato che avendo tirato in ballo Borges, Saviane e Nin, per quanto banali siano state queste mie rflessioni, senza una memoria del passato e senza la presenza di qualcuno in grado di conservarlo, non avrebbero potuto esserci.
Oggi questo qualcuno ha un Nome e sarà lui d’ora in poi il vero e solo leone di Palmira: Khaled Asaad.

Intanto ieri, 11 dicembre (2015), le forze del califfato hanno conquistato Sabrata in Libia, città archeologica patrimonio dell’UNESCO.


NOTE DELL'AUTORE

(1) G. Saviane, La biblioteca di Alessandria, in «Nuova Antologia», Anno 134°, Fasc. 2210, Aprile-Giugno 1999, p.160.
(2) Corano 42,40 (Traduzione di Federico Peirone). Per essere precisi il passo continua dicendo che “Colui che perdona e si corregge incontrerà la sua mercede presso Dio. Ei non apprezza affatto coloro che prevaricano” ma lasciamo da parte i dettagli fuorvianti.


 

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