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Chi ha paura dell’orso russo?

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Immagine in apertura: @Caters News Agency – Fonte: Daily Mail


La recente crisi in Ucraina, risultato dell’ennesima destabilizzazione innescata dalla malsana politica delle “rivoluzioni colorate” di stampo USA, la demonizzazione mediatica e il progressivo accerchiamento della Federazione Russa da parte di un’Alleanza Atlantica che teoricamente non avrebbe più avuto alcun motivo di esistere dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia nel 1991, stanno precipitando il pianeta in una nuova “Guerra Fredda” dalle conseguenze imprevedibili.


“La Russia ha inaugurato un parco d’attrazione per guerrafondai”. Così titolava il 17 giugno la testata on-line della rivista Time, in riferimento all’apertura presso Kubinska di un complesso aperto tanto al pubblico quanto a potenziali clienti stranieri, dove sono in esposizione permanente le più moderne tecnologie militari russe. I visitatori potranno salire a bordo dei blindati, osservare le dimostrazioni dei più recenti carri armati, maneggiare un lanciamissili, divertirsi su un simulatore, pranzare con le razioni militari da campo. Questa “Disneyland militare”, come l’ha definita il Guardian, viene maliziosamente presentata come l’ennesima dimostrazione della minacciosa deriva  della Russia di Putin, la cui ambizione, secondo svariati commentatori occidentali, sarebbe la restaurazione degli antichi fasti dell’Unione Sovietica, o dell’impero russo. 

Il fatto è che le forze armate russe, in piena fase di modernizzazione, stanno passando dal classico arruolamento di leva ad uno volontario, attraverso il quale il cittadino ne entra a far parte per propria libera scelta. Rispetto all’era sovietica, sono numericamente assai più piccole e meno influenti sulla leadership del governo: sono finiti i tempi delle vaste risorse umane e finanziarie, e ora, malgrado mantenga una cospicua fetta del bilancio federale, il ministero della difesa non ha più una posizione privilegiata rispetto ad altri dipartimenti statali. Per quest’ultimo e per le forze armate ciò ha significato la necessità di calcare un terreno per loro sconosciuto, ovvero quello delle pubbliche relazioni, curando la propria immagine presso i parlamentari e i contribuenti. In altre parole, quello che da decenni fanno le forze armate dei paesi NATO, in primis gli Stati Uniti, il cui Ministero della Difesa è nel gioco del marketing e degli arruolamenti da molto prima dei russi, e con molte più risorse a disposizione. La differenza è che se il cittadino russo può recarsi di propria iniziativa al “Patriot Park”, quello statunitense che ad esempio si recasse a una partita di football deve subirsi un delirio patriottico a stelle e strisce, con tanto di bandiera delle dimensioni da stadio, fuochi d’artificio e sorvolo di jet militari in formazione, alla faccia di chi è presente semplicemente per lo sport. Come direbbe qualcuno, “in Russia trovi la propaganda del ministero della difesa, in USA la propaganda del ministero della difesa trova te”.

La Guerra della Propaganda

Non sarà sfuggito a nessuno come negli ultimi anni la Russia in generale, e il suo Presidente Vladimir Putin in particolare, siano stati oggetto di una vera e propria campagna di demonizzazione da parte dei principali media occidentali, fomentati principalmente dall’amministrazione statunitense. 

“Vladimir Putin è una minaccia che non si può ignorare” (Bob Ainsworth e Sir Peter Luff, ex ministri della difesa britannici); 

“Putin e la minaccia russa” (Edward Lucas, Economist Magazine); 

“Perché la Russia di Putin è il maggior pericolo per gli USA nel 2015” (Loren Thompson, Forbes); 

“Vladimir Putin è una minaccia mondiale – Stati Uniti ed Europa devono prendere una posizione” (Richard Davis, professore di scienze politiche presso la Brigham Young University); 

“L’Europa fronteggia un 'reale pericolo' dalla Russia”, (Gen. Frederick Hodges, comandante delle forze armate USA in Europa). 

Sono solo alcuni titoli presi a caso fra gli articoli pubblicati di recente, a corollario di un’escalation innescata nel febbraio 2014 in Ucraina dall’illegale esautoramento e la fuga del legittimo Presidente Viktor Yanucovich in seguito alle proteste di piazza (Euromaidan, come sono state chiamate dall’emittente radiofonica statunitense Radio Free Europe), ma le cui origini risalgono ad anni prima, nel novembre del 2004, con quella “rivoluzione arancione” che fu preceduta da quella “di velluto” in Cecoslovacchia nel 1989, quella in Serbia nel 2000, quella delle “rose” in Georgia nel 2003 e seguita da quella dei “tulipani” in Kirghizistan nel 2005, per citare soltanto quelle negli stati ex-sovietici o nell’orbita del Patto di Varsavia. È ormai risaputo come dietro queste rivoluzioni vi sia la longa manus degli USA, tramite potenti organizzazioni non governative come il National Democratic Institute (NDI), la Freedom House di Washington o il National Endowment for Democracy, peraltro ben finanziate da istituzioni come l’Open Society Institute di George Soros, da importanti multinazionali perlopiù del settore petrolifero e minerario, o dallo stesso Congresso statunitense. Naturalmente in questo genere di attività appaiono coinvolte in primis l’intelligence statunitense (CIA, NSA) e britannica (MI5) ma più in generale sembrano implicate anche quella canadese, australiana e neozelandese, ovvero il cosiddetto gruppo UKUSA, almeno secondo alcune recenti rivelazioni del transfuga Edward Snowden. L’operazione in Ucraina ha visto in prima linea la diplomatica statunitense Victoria Nuland, intercettata telefonicamente in una conversazione con l’ambasciatore USA in quel paese mentre con linguaggio decisamente colorito (“Fuck the EU”: vedere PuntoZero nr. 7palesava l'intenzione americana di escludere l'Unione Europea nella ricerca di una soluzione alla crisi in corso, e che recentemente ha ammesso senza troppi problemi che il suo paese ha speso 5 miliardi di dollari per tale operazione. Non è quindi un caso che recentemente i massimi vertici russi e cinesi abbiano convenuto sulla necessità di stilare un piano d’azione per prevenire future “rivoluzioni colorate” nei rispettivi paesi.
 

Sia come sia, nel marzo 2014 la repubblica autonoma della penisola di Crimea, storicamente territorio russo ma passata all’allora Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nel 1954 (per iniziativa di Nikita Khrushchev, nel tentativo di aumentare la percentuale di russi residenti in quel paese), tramite un referendum popolare patrocinato dalla Russia sceglieva con una maggioranza schiacciante (oltre il 97% dei votanti) di tornare a far parte di quest’ultima. In seguito alla secessione della Crimea, nei territori filo-russi del Donbass le province di Donetsk e Luhansk si autoproclamano repubbliche popolari indipendenti, innescando una sanguinosa repressione da parte del governo centrale di Kiev.

La situazione peggiora ulteriormente dopo l’abbattimento del Volo Malaysia Airlines 17, partito il 17 luglio 2014 da Amsterdam e diretto a Kuala Lumpur, precipitato nei pressi di Donetsk insieme a 283 passeggeri e 15 membri dell’equipaggio. Sin da subito tutti i media e i governi occidentali si sono accodati alle accuse del governo ucraino e dell’intelligence statunitense, addossando la responsabilità della tragedia ai separatisti filo-russi, i quali avrebbero abbattuto l'aereo utilizzando un missile terra-aria Buk lanciato dal territorio sotto il loro controllo. Poco importa che le prove di queste pesanti accuse si siano in seguito dimostrate ben poco circostanziate (quando non palesemente falsificate, come le presunte registrazioni delle conversazioni tra i separatisti che si accreditavano il merito per l'abbattimento di un aereo militare ucraino, fotografie o altri dati raccolti su siti web e social network). In compenso, non è stata data praticamente alcuna rilevanza alla conferenza stampa del 21 luglio, nella quale il ministero della Difesa russo, tramite il Capo di Stato Maggiore delle forze armate Andrey Kartopolov e il Capo di Stato Maggiore dell'aeronautica militare Igor Makushev, presentava una solida documentazione che contraddiceva completamente le accuse rivolte ai separatisti, evidenziando altresì la presenza di un aereo militare ucraino, presumibilmente un Su-25, in volo nei pressi del Boeing 777 della Malaysia Airlines. A tutt’oggi, un rapporto conclusivo sull’incidente non è ancora stato rilasciato dalle autorità competenti.
 


Sopra: Agenti di polizia olandesi e australiani presso il luogo del disastro del volo MH-17 il 3 agosto 2014 (fonte: Wikicommons).

​Altro recente motivo di tensione è stato l’uccisione di Boris Nemtsov, uno dei leader dell'opposizione a Vladimir Putin ed ex vicepremier liberale all'epoca della presidenza Eltsin, assassinato il 27 febbraio di quest’anno con quattro colpi di pistola mentre passeggiava nel centro di Mosca, nelle immediate vicinanze del Cremlino, assieme ad una donna. Una volta di più, i grandi media occidentali non si sono fatti sfuggire l’occasione di evocare la possibile responsabilità del Presidente russo nell’omicidio, tirando in ballo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di Nemtsov, secondo i quali quest’ultimo stava per pubblicare un dossier sulla presenza di truppe russe in Ucraina, rivelando particolari molto compromettenti per Putin e il suo governo. 

Che dire poi dello scandalo che ha travolto la Fifa e il suo Presidente Sepp Blatter, con l’arresto di sette dirigenti e l’incriminazione di quattordici persone per un filone di indagine partito dall’FBI statunitense? Come non pensare che tutto questo abbia a che fare con l’assegnazione alla Russia dei mondiali di calcio 2018, assegnazione fortemente avversata dagli USA e per la quale Blatter era stato sottoposto a pesanti pressioni? 

Si potrebbe proseguire a lungo, magari ricordando le pretestuose polemiche sollevate in concomitanza con le Olimpiadi Invernali di Sochi 2014, oppure citando il recente (e fallito) tentativo di destabilizzazione in Macedonia, volto chiaramente a impedire il passaggio del gasdotto russo programmato per passare dalla Turchia e arrivare sino alla Grecia (alla quale gli USA avevano chiesto di rinunciare al progetto) per distribuire il gas in Europa. 

Insomma, ogni tentativo passato e recente di “normalizzare” e inglobare la Russia nel piano di un’egemonia mondiale statunitense sembra andato a vuoto, con buona pace di chi pensava che col crollo dell’Unione Sovietica, avvenuto nel 1991, e la conseguente dissoluzione del Patto di Varsavia, il gioco fosse ormai fatto. Non è un caso che il presidente russo Putin, spesso accusato di voler ricostituire l’URSS, sia un sostenitore dell’idea della catastrofe geopolitica verificatasi con il crollo dell’Unione Sovietica. Significativa la sua affermazione:

“Chi non rimpiange l’URSS, non ha cuore. Chi vuole rifarla così com’era, non ha cervello.”

Egli è consapevole della necessità di avere forze equilibratrici di fronte allo strapotere USA in Europa e nel mondo, e l’associazione dei BRICS (insieme a Brasile, India, Cina e Sud Africa), di cui la Russia è membro, è stata creata proprio con questo obiettivo; malauguratamente, non ne fa parte alcuno stato europeo. Col crollo dell’URSS, gli Stati Uniti hanno trovato campo libero in Europa e nel mondo, ma ora si erge un ostacolo, ovvero proprio l’erede di quell’Unione Sovietica, la Russia. Ed ecco che si ritorna ad evocare la “Guerra Fredda”.

CONTINUA….

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